|
Il gusto delle cose. Una storia degli oggetti
nella Roma del Seicento / Renata Ago
di
Paola
Zito
Paola
Zito, già bibliotecaria
della Biblioteca Nazionale di Napoli,
insegna Bibliografia e Biblioteconomia presso la facoltà di
Lettere e Filosofia della Seconda Università degli
Studi di Napoli.
|
Un
suggestivo affresco della Roma seicentesca, denso di atmosfere chiaroscurali
e di sinestesie, il volume della Ago. Non un romanzo, ma una accurata
e documentata ricostruzione storica. Non ne sono protagonisti pontefici
e porporati, teologi e artisti, né Urbano VIII né Innocenzo X, né Bernini né Borromini
né Molinos. Il fuoco dell’indagine elaborata in queste
pagine è la gente comune che ebbe la ventura di condurre la
sua esistenza nella città dei papi durante il secolo del Barocco,
di cui vengono ritratti i gusti, le abitudini, le usanze. Scene di
vita quotidiana, che inquadrano talvolta aristocratici, più spesso
borghesi, professionisti, artigiani, insomma il ‘ceto mediocre’.
Singoli individui o intere famiglie, nelle quali - come è naturale – si
avvicendano più
generazioni, e figure femminili che, piuttosto insolitamente, assumono un ruolo
di primo piano. Non è un caso. E’ sulla donna, durante l’antico
regime e non solo, che ricade l’onere della gestione – e della
contabilità - domestica; è
lei a dover provvedere, oltre che all’educazione della prole, alle esigenze
di tutti i giorni – cibo, vestiario, candele, elemosine – ad arredi
e stoviglie, insomma a badare alla casa, a dotarla dell’indispensabile,
e, qualora la disponibilità economica lo consenta, anche del superfluo,
fino a sfiorare l’autentico lusso. E poi, le tocca conservare – anche
qualora non sia lei a godere legalmente della proprietà - l’intero
patrimonio di suppellettili il più a lungo possibile, perché giunga
indenne nelle mani di figlie, nuore e nipoti. E’ dunque questione di oggetti,
che proprio allora si vanno gradualmente affrancando dalla arcaica funzione
monetaria, per rivestire nuovo senso e nuovo valore, affettivo ed estetico,
oltre che d’uso. Sono, certo, il segno di uno status sociale,
ma, forse ancor più, la filigrana di un’identità. Proprio
per l’investimento emotivo di cui prendono a caricarsi, costituiscono
una testimonianza decisamente preziosa, uno specchio nitido e un po’ indiscreto,
in grado di insinuare l’osservatore nella sfera del privato più
geloso, negli ambiti più riposti della realtà e dell’immaginario,
laddove i segreti più intimi si considerano al sicuro. Camere da letto,
sale e cucine, dispense, cassepanche e portagioie, vengono frugati, quasi perquisiti; zone
d’ombra rischiarate dalla luce dei riflettori storiografici. Nature
morte più vive che mai, fuori dalla resa prospettica che così di
frequente, all’epoca, le immobilizza sulla tela, non redente dalla catarsi
pittorica che ne garantisce l’intangibilità, ma immerse a pieno
nel flusso dinamico di fruizione e consumo. A più alto rischio di logorio
e distruzione alcuni generi, di pignoramento e vendita altri, a fronte della
nettamente maggiore stabilità
dei beni immobili. Non pure forme sapientemente accostate e offerte allo sguardo,
ma ‘pezzi’ materiali e funzionali, animati dal possesso. Adoperati
o indossati, magari collezionati, ereditati comprati o scambiati, ridotti in
cocci (o in cenci) e rimpiazzati, recati in dote, alienati e riscattati, regalati,
prestati o spostati. Coordinate essenziali di un mondo consueto e rassicurante,
radiografie di un microcosmo al singolare, tessere di un mosaico soggetto
ad una fisiologica anamorfosi. Semiofori in grado, alla loro maniera,
di rifondare un cosmos ormai senza sostrato. Calati nella ampia fenomenologia
di spazi chiusi, di numero e di ampiezza variabile, e variamente ripartiti
nell’economia dell’abitare.
|
|
Incrementi e decrementi
vengono periodicamente registrati in apposite ‘scritture’,
inventari redatti in occasione delle svolte fondamentali che scandiscono
il destino di ciascuno. Nascite, morti, matrimoni, vedovanze, traslochi,
rappresentano i momenti topici del bilancio, quelli in cui si
impone la necessità di fare il punto della situazione, tra acquisizioni,
perdite, recuperi. All’alba del nuovo corso, viene
appuntato su carta quanto è rimasto della stagione precedente,
nell’ottica della continuità, attenta alla consistenza
di ciò che viene tramandato. E’ proprio sulla sopravvivenza
di un nutrito campione di simili ‘verbali della memoria’ – ben
settantasei, tra loro differenti per livello analitico e criteri di
descrizione - che si basa il lavoro della Ago, non senza l’incrocio dei
dati con altre fonti coeve, iconografiche, letterarie, bibliografiche.
Sul filo rosso di quelle serie di annotazioni si mette in moto una
poderosa macchina del tempo, che ci introduce in un teatro di interni,
dove è in atto la rappresentazione ‘a soggetto’ di
attori anonimi e sconosciute comparse. Stanze spesso male illuminate
e poco o per niente riscaldate, più o meno ingombre di mobili – tanti,
e di scarso valore, per le donne, pochi, ma di maggior pregio,
per gli uomini -, dove si dormiva e si riceveva, si lavorava e si pregava,
si cuocevano gli alimenti (bollendo e stufando, piuttosto che arrostendo)
e si mangiava. Nella media, molto meno riccamente allestite le tavole
da pranzo che vi venivano apparecchiate rispetto a quelle di dipinti
e incisioni, se bicchieri, tazze e posate latitano in quasi tutte le
liste, e altrettanto scarsi vi risultano giocattoli e oggetti a misura
di bambino. Ad abbondare invece sono sedie e sgabelli, a dimostrazione
di quanto praticati fossero i rituali dell’ospitalità.
Poco
volubile, inoltre, la moda dell’epoca, almeno fino agli ultimi
decenni del secolo, quando prendono a soffiare più intensi i
venti di Francia. Fogge non proprio fantasiose, nero pressoché tassativo
per gli uomini, rosso, cremisi e azzurro per le donne, prima che si
diffondessero adeguatamente i suggerimenti d’oltralpe – e
del Levante - a proposito di una gamma cromatica aperta al gioco delle
sfumature e di una ben più ricca serie di ‘accessori’ (sciarpe,
guanti, manicotti ecc.). Analogamente palese la differenza di genere
quanto al possesso di quadri, inferiori per quantità, qualità e
dimensioni negli elenchi al femminile, contenutisticamente orientati,
in prevalenza, verso immagini sacre e ritratti di famiglia. Ancora,
la vetrina virtuale espone, con varia concentrazione, specchi, lumi
lucerne e candelieri, scatole, orologi, ventagli, bambole, profumi
ed essenze, pettini d’avorio e d’argento, fiori di seta,
tabacchiere, santini, strumenti musicali (soprattutto chitarre), gioielli
(collane e orecchini di perle, anelli e fermagli con diamante, rosari
d’ambra o di granati). E libri, spirituali e temporali.
Certo non molti, solitamente limitati a poche unità, ma sufficienti
a fornire qualche altro tassello all’arduo mosaico di una storia
della lettura che non voglia limitarsi a considerare abitudini e inclinazioni
dei soli lettori di professione. Bibbie, testi classici, manuali cronache
di viaggi, dizionari, allineati su apposite scansie. Prima ancora che
vengano aperti e quanto meno sfogliati, è il formato ad anticiparne
gli obiettivi e la destinazione, come a racchiudere una sorta di ‘scommessa’ ben
calcolata in tipografia: presumibilmente consultati, tenuti
a rispettosa distanza gli in folio, più volte riletti,
assimilati ed interiorizzati i volumetti dall’ottavo in
giù.
Gallerie
di rarità dall’inestimabile valore o raccolte molto meno ‘straordinarie’,
autentiche maraviglie o ninnoli banali, capolavori d’autore
o semplici croste: se non la febbre del collezionismo, almeno l’ansia
di racimolare per mostrare e per conservare, percorsa dalla stessa libido,
investe trasversalmente più ceti, restituendo l’articolato
ventaglio di gradazioni tra il relativo disagio e l’assoluto
benessere. Condizioni – e stili – di vita riflesse da una
cultura materiale che contrappone, ma al tempo stesso accomuna, i tanti
pioli della scala sociale. Cose elette ad assorbire e a prolungare
la cifra del sé, a sostenere illustri o meno illustri genealogie.
Emancipandosi così dalla vanitas che ne costituiva la
matrice originaria, in proiezione di una immortalità
tutta immanente, umana e terrena, profana anche per gli oggetti di
devozione.
|
|
|
Renata Ago
Il gusto delle cose. Una storia degli oggetti nella Roma del
Seicento
Roma, Donzelli,
2006
|
Nell'immagine a inizio pagina: Christian Berentz, Cristalli
di Boemia, tazze e un orologio, olio su tela. Roma, Galleria
nazionale d'arte antica di palazzo Corsini, particolare
©
Biblioteca Nazionale di Napoli (dicembre
2007)
I testi pubblicati sono di proprietą della Biblioteca Nazionale
di Napoli (Ministero per i Beni e le Attivitą Culturali). E' concessa la
riproduzione parziale citando la
fonte.
|