Un
libro al mese
Percorsi
bibliografici
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Happy
anniversary, Sam!
di
Lucia Marinelli
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Nothing is funnier than unhappiness (Endgame)
Premetto
che quelle che leggerete sono mie considerazioni sulle opere di Samuel
Beckett, su quello che rappresentano per me, un omaggio
del tutto personale insomma, con nessuna pretesa critica né valore
alcuno che non sia il puro desiderio di condividere con voi e se mai
segnalare a chi già non lo conosca un genio letterario che,
se irlandesi ha avuto le origini, per scelta, linguistica ed esistenziale,
universale ha il valore di ciò che ci ha lasciato.
Se
penso a Samuel Beckett, ho davanti agli occhi sempre la stessa
scena: una stanza buia (teatrino universitario? non ricordo più),
una luce spot, tre mie compagne d’università sedute
su altrettante sedie, una si alza e si allontana, le altre due
accennano ad eventi che la terza non deve sapere, poi quella torna
e si siede, si alza un’altra e le restanti ripetono esattamente
lo stesso dialogo, all’infinito, non so più cosa stessero
dicendo, mi ricordo solo la voglia di ridere (Marianna, Grazia
e Maria Pia lì immobili
con tre grandi cappelli che lasciavano scoperta solo la bocca,
vestite di un camicione che le nascondeva quasi del tutto, le mani
intrecciate, che parlavano in maniera monotona e quasi incomprensibile)
e subito la violenza di una verità che colpisce come una
stilettata, il taglio di una lama. Era una messa in scena del Come
and go per
la regia della nostra docente di letteratura inglese, la prof. Rosangela
Barone (grazie ancora, Prof, per averci aperto le porte della letteratura
contemporanea!); questo è Beckett, per me.
La
sensazione di allora l’ho poi riprovata vedendo L’ultimo
nastro di Krapp, Commedia, Finale di partita, Aspettando
Godot, e l’incredibile Giorni felici, con la
protagonista semisprofondata in una montagnola di erba e terriccio,
o leggendo le Poesie,
i romanzi Molloy e Watt:
il repentino passaggio dall’estraneità al rispecchiamento
mi colpisce ogni volta che “incontro” Beckett.
E’ per
questo che, nello spazio concesso a noi bibliotecari sul sito della BNN
per stimolare il pubblico all’esplorazione
dell’universo-libro, vorrei ricordare il grandissimo scrittore
irlandese, di cui si celebra quest’anno il centenario della nascita.
Parlare
di anniversari e centenari nel caso di Beckett è perlomeno
curioso: la sua data di nascita è in discussione, mentre
lui ha sempre sostenuto di essere nato il 13 aprile 1906, sui suoi
documenti risulta il 13 maggio, un fluttuare del tempo tutto beckettiano,
direi…
Mi
sono spesso chiesta cosa due vagabondi che aspettano un piccolo dio
(o un ciclista sfigato?), una donna semisepolta nel terreno,
un personaggio muto che viene gettato sulla scena e costretto
all’inazione (Atto senza parole), tre tizi in altrettante
urne che ripercorrono all’infinito il loro ménage
a trois (Commedia) o due storpi persi alla fine
del mondo (Finale
di partita),
abbiano a che vedere con me, perché invece di liquidarli
con un’alzata di spalle ogni volta mi viene voglia di ridere-piangere
su di me, su quello che ognuno di noi diventa, su
un dio che non ci guarda più, sulla sorte comune dell’umanità,
la vecchiaia, la morte.
Sarà che
davanti ai personaggi di Beckett, le cui situazioni tragiche sono
irresistibilmente comiche, noi comprendiamo il nostro personale dramaticule:
noi tutti vorremmo, nei momenti difficili, avere le dimensioni
eroiche, che so, di un Prometeo, di un Edipo, di un Lear, o di
un Ahab, con la sua indomitable soul,
che sfida fino all’ultimo il suo nemico, senza ripensamenti,
sullo sfondo di musiche wagneriane o beethoveniane, per dire, ma
in realtà i nostri problemi, persino i nostri drammi non hanno
nulla di grandioso, la nostra solitudine ha il sapore amaro del nastro
che gira sul passato di Krapp, i nostri rapporti interpersonali ripercorrono
la buffa routine senza senso dei dialoghi di Estragone e Vladimiro,
il nostro coraggio somiglia molto all’insipienza, alla self-delusion di
Winnie.
Mi
domando se la risata che i personaggi beckettiani suscitano
sia anche una reazione al senso di colpa per situazioni in cui riconosciamo
noi stessi, situazioni da cui, una volta impastoiati per le ragioni
più diverse, casualità, convenienza - perché così ci
hanno detto di fare, perché quello ci si aspettava da noi
- non riusciamo più a districarci.
Perché sono
così brevi
gli act o dramaticule di
Beckett, al punto da doverne affiancare diversi in una serata teatrale
o presentare come entr’acte? perché viceversa
sono circoli viziosi, hanno l’eternità del purgatorio,
e dunque la bocca di Non io continuerà a mormorare
per sempre, il vagito di Respiro risuonerà per ognuno
di noi, per l’infinita umanità e nell’infinita
pochezza della vita individuale.
Che
cos’è l’umorismo che si attribuisce
alle opere di Beckett se non un umore che ti preme dentro
e che può allo stesso tempo farti sbottare in una risata o
farti salire le lacrime agli occhi.
Negli
anni ho letto le interpretazioni più varie
dell’opus beckettiano,
dalla classica definizione di Teatro dell’Assurdo (Esslin)
alla rilettura di alcune sue opere in chiave biblica (Cavell), alla
condizione esistenziale dell’uomo senza dio, al senso di vivere
un day
after post-atomico (Fletcher), alla lettura psicanalitica (Tagliaferri),
ad un universo purgatoriale (Frasca), punti di vista variegati,
affascinanti e illuminanti come lo scrittore cui si riferiscono;
ciò che
colpisce me è, come dire, la completa perspicuità,
a livello percettivo, dei testi beckettiani, il suo realismo assoluto,
la sua spietata adesione alla realtà (a quella che io
percepisco come realtà e a quella che le voci narranti di
Beckett non riescono mai ad essere sicuri di star guardando, a causa
della “pioggerellina” che
gli tamburella in testa e che gli appanna la vista, sfociando talvolta
in cecità vera e propria, vedi Molloy o Hamm).
Beckett
ci riguarda da vicino, ci parla di noi: il linguaggio balbettato
e circolare, smozzicato fin quasi all’afasia, il ritorno
ossessivo dei refrain, le mezze frasi che non vanno
da nessuna parte ricordano l’aleatorietà della conversazione
quotidiana, la persecuzione dei tormentoni televisivi. La perentorietà delle
voci fuori campo, la spietatezza delle luci e dei campanelli
sono sintomi di una vita eterodiretta: come non pensare alla
sveglia che ti riporta alla realtà quotidiana, l’orologio
che scandisce la tua presenza in ufficio, alla tivù che
ti insegna cosa pensare o al certificato che prova la tua esistenza
in vita? Le
dinamiche familiari saltano agli occhi nell’eterno gioco
di coppia, a metà fra lo scambio comico da vaudeville (Vladimiro
ed Estragone come Laurel & Hardy) e la circolarità del
purgatorio domestico (Winnie e Willie), o nel rapporto
generazionale che diventa un peso insopportabile (gli anziani
genitori nei bidoni della spazzatura in Finale di Partita,
la vecchia signora che finisce i suoi giorni rimasticando i
suoi pensieri su una sedia a dondolo in Dondola). La
difficile, talvolta impossibile deambulazione di molti personaggi,
i loro frustrati tentativi di suicidio sono sintomo di un’umanità vecchia,
tuttavia incapace di sfuggire alla realtà,
anzi accanitamente, irrazionalmente attaccata alla vita,
ad una speranza purchessia.
Rendersi
conto dell’ordinarietà degli assurdi dialoghi
e situazioni in Beckett è capire l’assurdità del
nostro quotidiano.
Un
realismo assoluto anche nel senso etimologico di sciolto:
la scarnificazione dei personaggi, ridotti talvolta a semplici
monosillabi come Vi, Ru, Flo in Va e vieni o a lettere
dell’alfabeto
come D1 D2 U in Commedia (divina? mah), e soprattutto delle
loro parole, eliminando tutto quello che è circostanziale
- chi sono, dove vivono, cosa fanno - li rende allo stesso tempo
più astratti
e più vicini a noi, che all’osso siamo niente
più che echi di
quelle entità-situazioni, al punto che le nostre stesse
ossa si mettono in risonanza con ciò che si legge, vede,
sente (perdonatemi il gioco di parole con la raccolta poetica di
Beckett intitolata appunto Ossa
d’eco).
Mentre
preparavo questo mio intervento su Beckett ho letto Appunti
sul realismo di Beckett di Jan Cott e ho ritrovato
un’imprevista
consonanza con le sensazioni testé descritte: Cott paragona
la situazione di Winnie in Giorni felici (immobilizzata
con una borsa piena di oggetti da toletta ed altro) alla situazione
reale di persone ospedalizzate per lunghe degenze, la cui vita
si riduce ai pochi oggetti che li circondano ed ai pochi atti
che possono compiere dal loro letto, mentre fattori esterni (infermieri,
luci che si accendono e spengono a tempo o un campanello, come
nel caso di Winnie) segnano il trascorrere del tempo, peraltro
indistinto. Dunque il senso dell’estremo realismo delle
situazioni beckettiane colpisce tanto più quanto si
sono vissute o
osservate esattamente le stesse situazioni di dolore o di frustrazione.
Dice
Tagliaferri, nell’introduzione al suo saggio Beckett
e l’iperdeterminazione
letteraria, che le opere beckettiane hanno “una
bibliografia di proporzioni allarmanti” (p.
15): ho deciso di farmi del male e ho dato uno sguardo
alla bibliografia di opere italiane di e su Beckett
nel sito delle celebrazioni beckettiane in Italia
( beckettcentenario),
ovviamente c’è una cascata di libri,
tutti interessanti, consiglio pertanto di consultare
il sito a chi voglia approfondire.
Da
parte mia vi indicherò alcune edizioni italiane reperibili
ed affidabili che ho consultato direttamente, anche qui
senza alcuna pretesa di esaustività.
Dunque,
essendomi soffermata soprattutto sul teatro, vi segnalerei come fondamentale
l’ormai classica edizione del Teatro completo con traduzioni
a cura di Carlo Fruttero, introduzione e note di Paolo Bertinetti
(Einaudi-Gallimard, 1994), un pregevole volumetto che presenta insieme
non solo le opere teatrali propriamente dette, a ma anche i testi
radiofonici e cinematografici, un apparato iconografico e un
notevolissimo apparato critico con gli interventi più significativi
degli ultimi cinquant’anni su Beckett, da Adorno, ai già citati
Cott ed Esslin, al biografo di Beckett, Knowlson.
Senz’altro
poi le Poesie (in edizione bi- e tri-lingue, Einaudi,
1999), i romanzi Watt (Einaudi, 1998) e Murphy (Einaudi,
2003), tutti a cura di Gabriele Frasca, il cui sensibile lavoro
di traduzione è corredato da note ai testi e corpose introduzioni che
trasportano chi si accosta a Beckett per la prima volta nella
temperie culturale, nelle vicende biografiche e persino nel “cranio” dell’artista
irlandese. Siamo in attesa, peraltro, dell’annunciata uscita
per Einaudi del volume In nessun modo ancora sempre a
cura di Gabriele Frasca, in concomitanza con il centenario beckettiano.
Per
la trilogia (Molloy, Malone muore, L’Innominabile)
importante è la traduzione a cura di Aldo Tagliaferri
(Einaudi, 1996) a cui aggiungerei il saggio già citato Beckett
e l’iperdeterminazione
letteraria (Feltrinelli, 1979), che aiuta nella comprensione
di molti passi “oscuri” avvicinando chi, come me,
ne sa poco di psicanalisi, ad una interessante lettura junghiana
e mitica della trilogia.
Riprendendo
una conversazione con un amico inglese, vorrei terminare con
un consiglio: leggere Beckett
possibilmente anche in inglese
(o in francese), perché come
diceva appunto il mio amico, in traduzione talvolta si ha la
sensazione che Beckett sia
terribilmente deprimente,
invece, nonostante tutto è funny,
divertente … certo di un riso swiftiano, sardonico, non
senza un po’ di presa in giro del lettore, à la Sterne.
Inviterei
infine a cogliere l’occasione di questo anniversario non solo
per celebrare uno scrittore straordinario, che del nostro plauso non
ha certo bisogno avendo assunto le dimensioni di classico al di là della
nostra personale adesione (ha vinto il Nobel nel 1969), ma perché il
suo sguardo sulla realtà, la sua capacità di vedere la
condizione umana in tutta la sua pochezza e solitudine, non siano dimenticati
e servano in qualche modo da antidoto ai veleni mediatici di cui siamo
pervasi.
Nel
sito dedicato alle celebrazioni in Italia, non ho trovato,
per
il
momento,
alcuna iniziativa presa a Napoli, la mia proposta è dunque
rivolta ai dipartimenti di letteratura inglese e francese
delle università napoletane,
alle istituzioni culturali della città, alle librerie
maggiori che in questa città fanno una meritoria opera
di divulgazione culturale, e non ultima alla nostra stessa
direzione affinché sia
organizzata una serata beckettiana durante questo
anno che più beckettiano
non si può, fra claustrofobici teatrini di reality,
politica e di una guerra, sempre più mondiale e mediale.
1)
Samuel Beckett. Foto: Lutfi Ozkok (da: Arcade
Publishing)
2) Marianna, Grazia e Maria Pia in Come and go
3) Julian Curry in Krapp's Last Tape (1986). Foto: Porter Abbott (da: Beckett
Endpage)
4) Madelein Renaud protagonista di Oh les beaux jours al Festival di
Venezia, ottobre 1963 (da: Il Dramma, 11/1968, p. 35)
5) Lucien Raimbourg e Pierre Latour nei personaggi di Vladimir e Estragon di
En attendant Godot al Théâtre de Babylone di Parigi il
3 gennaio 1953 (da: Il Dramma, 11/1968, p. 35)
6) Copertine di alcune edizioni italiane delle opere di Beckett
© Biblioteca
Nazionale di Napoli (aprile
2006)
I
testi pubblicati sono di proprietà della Biblioteca Nazionale
di Napoli (Ministero per i Beni e le Attività Culturali).
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