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Piramidi di tempo. Storia e teoria del dejà
vu / Remo Bodei di Mariolina
Rascaglia
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“No, Tempo, tu non ti vanterai
che io muti! / Le tue piramidi costruite con rinnovata potenza /
non sono per me nulla di nuovo, nulla di strano: / soltanto rivestimenti
di uno spettacolo già visto …”.
E’ all’incipit del Sonetto
123 di Shakespeare che Bodei ricorre per intitolare la sua ultima
fatica dedicata come recita il sottotitolo – Storie e teoria del
déjà
vu – ad un tema in apparenza desueto ma, in realtà, quanto mai
intrigante in un momento storico come quello attuale alla continua
ricerca di chiavi di lettura non convenzionali in grado di scandagliare
le tante zone d’ombra che popolano le pieghe dell’animo umano. Più di
una volta è capitato a ciascuno di noi di provare in un determinato
momento la sensazione di aver già vissuto una situazione identica,
di aver già conosciuto una certa persona che si incontra per la prima
volta o di essere stati in un luogo nel quale, in realtà, non ci
si era mai recati. A ben vedere, fili sottili legano tale esperienza – definita
in Francia a fine ottocento con il termine déjà vu - con i
sentimenti di stupore, incredulità e di inquietudine. “La sensazione
di ripercorrere frammenti di passato – afferma Bodei all’inizio della
sua indagine - è,
per alcuni istanti, così netta e imperiosa da riempirci di sconcerto
e da provocare un disorientamento temporale” (p. 8).
Un senso di
estranea familiarità, dovuto a una speciale reazione chimica,
unisce déjà vu e jamais vu e spinge l’individuo verso
una situazione conflittuale che lo porta ad accettare e,
contestualmente, a rifiutare la sensazione provata. E’ una sensazione
simile a quella onirica, in cui realtà e irrealtà si sovrappongono e le
differenze temporali sembrano svanire con la sola differenza che nel
déjà vu si diventa vittime di un “sogno rovesciato”. Nel sogno,
infatti, si scambia un’allucinazione con la realtà mentre in
quest’ultimo si prende la realtà per un’allucinazione, si assiste ad una
sorta di trompe-l’oeil temporale che determina, anche se per
brevi momenti, la perdita della propria identità. Il fluire
dell’esperienza sembra arrestarsi e il presente si rispecchia
specularmente nel passato in maniera così completa da far ritornare
indietro la percezione avvertita sotto forma di ricordo. In quei momenti
è come se “l’attenzione alla vita” si allentasse, quasi a volersi
difendere da impressioni, fantasie o pensieri sgradevoli o addirittura
traumatici e per il soggetto scattasse un campanello d’allarme
incaricato di segnalare il rischio di una destabilizzazione sia pur
lieve della personalità. Ulteriore tappa del viaggio intrapreso da
Bodei nei meandri dell’esperienza umana, l’indagine sembra prendere in
apparenza le distanze dal teatro del mondo ma in realtà conferma la
fedeltà dell’autore nei confronti di una filosofia agonistica, giocata
sulla contrapposizione degli opposti e lontana dalle certezze che le
odierne forme di “razionalismo” sembrano offrire. Rispetto alla scarsa
attenzione riservata nel dibattito pubblico al tema del déjà vu
durante il novecento non è casuale, a suo giudizio, l’interesse che tale
fenomeno continua a suscitare a livello individuale ponendo ai singoli,
sempre più abbandonati a se stessi, quesiti ai quali le discipline sia
umanistiche che scientifiche non hanno saputo fornire risposte
adeguate. Più che ricostruirne la vicenda diacronica che affonda le
radici nel filone platonico e ancor prima nelle correnti
orfico-pitagoriche, a suscitare l’interesse di Bodei è la ripresa del
fenomeno nell’ottocento quando iniziarono a fiorire studi sull’argomento
in campo medico, letterario e filosofico. La sua attenzione è, infatti,
rivolta ai nessi tra fisiologia, poesia, romanzo, psicologia, filosofia
e “metafisica popolare” che sono stati posti in evidenza proprio a
partire dalla metà del secolo. Il sorgere della questione in quel
periodo è da collegare all’insanabile frattura, delineatasi all’epoca,
fra l’accelerazione del tempo storico ed esistenziale della modernità e,
secondo la definizione di Benjamin, gli “antichi universi simbolici” o,
in altri termini, tra la “vie antérieure” di Baudelaire assurta ormai a
remoto e indistinto passato mitico e lo “spleen”, come reazione agli
choc dovuti ai vorticosi cambiamenti del presente. Svanito il saldo
ancoraggio alla realtà garantito dalla tradizione, sembra prevalere una
“caleidoscopica fantasmagoria” di pensieri, immagini e emozioni nella
quale la dimensione temporale pare oscillare fra lo scorrere degli
eventi e il ritornare dell’identico, dell’istantaneo che giunge quasi ad
annullare la differenza fra passato e presente.
Nel corso del saggio, la dimensione interdisciplinare del
fenomeno dejà vu consente a Bodei di porre in relazione – secondo
il procedere a lui caro per coppie di antitesi – temi quali la
memoria e le dimensioni del tempo, l’eternità e l’eterno ritorno, il
delirio e il rimpianto, l’identità e la scissione della personalità. Non
a caso, la natura stereoscopica del concetto di dejà vu ne
suggerisce un’interpretazione non univoca, partendo dalla considerazione
che agli studiosi non risulta ben chiaro se il fattore scatenante abbia
origine organica o psichica. Attraverso un insolito ma affascinante
percorso Bodei ripropone pagine più o meno note di poeti, scrittori,
filosofi, medici e psicologi che si sono misurati in vario modo,
attraverso esperienze autobiografiche, considerazioni speculative,
analisi scientifiche, con l’universo del dejà vu. I primi
versi nei quali il lettore può ritrovare un’esperienza di dejà vu
sono quelli del pittore preraffaellita Dante Gabriele Rossetti nella
lirica Sudden light dedicata nel 1854 alla sua compagna Elizabeth
Eleanor Siddal – all’epoca ancora in vita - e rivisitata nel 1870
sull’onda dei ricordi che lo assalivano dopo la sua tragica scomparsa.
Nelle pagine seguenti Bodei rivisita liriche ben più note di Verlaine e
Ungaretti, Kaléidoscope e Risvegli, dedicate
rispettivamente al tema della metamorfosi dell’identico e a quello delle
“epoche della vita” in cui il poeta inscrive la propria esperienza di
essere umano. La voce della poesia si insinua anche nel delicato
conflitto fra la logica razionale e la logica del desiderio: in questo
caso è l’invocazione dantesca - solo in apparenza incongrua – alla
Vergine madre che apre il XXXIII canto del Paradiso: “Vergine
madre, figlia del tuo Figlio”. A tentazioni diaboliche riconduce,
invece, Agostino le false reminiscenze provate per lo più nel sonno per
influsso di spiriti maligni e ingannatori che procurano artatamente
false opinioni sulla migrazione delle anime. In realtà, ha inizio con
lui il rifiuto che la dottrina cristiana, fondata sulla incarnazione del
Figlio di Dio, avrebbe esercitato nei secoli nei riguardi di qualsiasi
forma di eterno ritorno dell’identico. Tale dominio sarebbe durato fino
all’avvento sulla scena filosofica di Nietzsche, la cui teoria
dell’eterno ritorno rinvia all’atmosfera rarefatta dei ricordi ed alla
sospensione del fluire del tempo materiale. In questo caso è la
dimensione della volontà individuale a farsi strada, affermando il
valore di una nuova dimensione temporale che rende ogni attimo omaggio
alla pienezza della vita. Sancita in questo modo la frantumazione
dell’io, l’analisi del concetto di dejà vu si orienta da un lato
verso la psicopatologia interessata allo studio dei fenomeni di
“depersonalizzazione”, mentre individua dall’altro con Bergson
l’importanza del vissuto, del dejà veçu, che connota ogni
esperienza. Secondo la definizione del filosofo, il presente si sdoppia
in due getti simmetrici, il ricordo e la percezione, il primo che ricade
verso il passato, il secondo che si slancia verso il futuro. Nel caso in
cui quest’ultimo movimento si blocca, ne deriva una sensazione di
smarrimento che, se transitorio, può costituire una preziosa valvola di
sfogo per le tensioni accumulate. In un simile contesto l’esperienza del
dejà vu, come quella del sogno, svolgono a suo giudizio una
funzione terapeutica, in cui il momentaneo distacco dalla realtà può
aiutare a prevenire crisi più profonde. Ma, secondo Bodei, è Walter
Benjamin - interprete per eccellenza della crisi dell’uomo contemporaneo
– a considerare il dejà vu, la vie antérieure e l’eterno
ritorno come illusorii risarcimenti della fragilità psichica e del senso
di angoscia prodotti dal tempo dello spleen e del jamais
vu. Ed a tale proposito riporta le tesi che sull’argomento Benjamin
formulò a Capri, nel 1924, durante una discussione con Ernst Bloch sul
racconto di Ludwig Tieck Der blonde Eckbert (1797) in cui
memoria, oblio e senso di colpa intrecciano i loro fili con l’esperienza
mai pienamente definibile del dejà vu. Il passo verso la sfera
del delirio schizofrenico e le pagine freudiane è sicuramente breve ma
Bodei, nell’affrontare temi di così vasta portata, riesce con tratto
deciso a ricondurre il lettore nell’atmosfera rarefatta e multiforme
della creazione artistica in cui ciascuno può cercare la risposta più
idonea ai dejà vu che hanno costellato il proprio
vissuto.
Remo Bodei Piramidi di tempo Storia e teoria del
dejà vu Bologna, Il
Mulino, 2006
(Intersezioni) |
©
Biblioteca Nazionale di Napoli (dicembre
2006)
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