Torna alla homepage della Biblioteca Nazionale di Napoli  
Apri la pagina dei contatti
Percorsi bibliografici | Un libro al mese | L'Olimpo abbandonato
Un libro al mese
Percorsi bibliografici


La copertina del volume

L'Olimpo abbandonato / Lucio Felici
di
Fabiana Cacciapuoti

Per una più agevole lettura è possibile scaricare la versione del testo in formato PDF ottimizzata per la stampa
Apri la pagina collegata Cacciapuoti_Felici.pdf (132 Kb)

Luogo dell’assenza, segno del vuoto e della mancanza: questo l’Olimpo al quale Lucio Felici allude nel suo ultimo libro dedicato a Leopardi. Un’assenza che si traduce nell’abbandono degli dei, metafora della perdita del mito e della fine della poesia, segno che restituisce al lettore l’essenza della riflessione leopardiana sul moderno. E non sembra casuale la scelta dell’immagine di Amore e psiche che compare sulla copertina del volume, poiché la conoscenza, che caratterizza appunto il soggetto moderno provocandone l’infelicità, è simbolicamente causa della perdita di Amore da parte di Psiche.
Attraverso la sequenza di saggi che costituiscono il volume, Felici individua nell’opera leopardiana la ricerca delle «favole antiche», evocate dall’immagine di copertina, ma anche il desiderio dei «disperati affetti»: il mito come la passione sembrano così costituire elementi propri della psiche, prima ancora di porsi come cesure tra antico e moderno. La domanda esistenziale leopardiana è quindi anche il centro di questo libro, che si fonda sulla parola del poeta quale strumento di interrogazione e di conoscenza.
Felici segue le tracce di questo atteggiamento nella scrittura dei Canti, delle Operette morali, senza dimenticare di porre i pensieri dello Zibaldone in maniera speculare ai testi esaminati. Il lettore è guidato così, inconsapevolmente, attraverso tutta l’opera leopardiana: ogni testo scelto come tema centrale ne evoca altri, analizzati e confrontati con rigore filologico e leggerezza stilistica, mentre l’epistolario costituisce uno sfondo essenziale in cui biografia e riflessione coincidono.
L’Olimpo abbandonato è il testo d’apertura, che significativamente dà il titolo a tutto il libro: il mito è qui considerato nella “preistoria” dei lavori leopardiani, a partire dal Saggio sopra gli errori popolari degli antichi e dalla Storia dell’astronomia, fino ad alcuni pensieri dello Zibaldone, tra i quali l’autore mette in evidenza quello in cui Leopardi sottolinea l’appartenenza dell’immaginazione ai fanciulli. Insieme a Vico, Leopardi vede nella fanciullezza la stagione della vera conoscenza, libera dalla forza della ragione e aperta alla libertà della fantasia, quando ogni elemento naturale – il tuono, il vento come il sole e gli astri, o anche gli animali e le piante – non è indifferente, ma animato e quindi carico di significato, ostile o amico. Questa considerazione permette a Felici di rilevare che solo nel Discorso di un italiano sopra la poesia romantica le interpretazioni dei miti del Saggio e della Storia sono rovesciate, in virtù della forza assunta dalla fantasia e dall’immaginazione dei fanciulli, facoltà che essi condividono con gli antichi. Felici rileva come le posizioni leopardiane siano affini a quelle proprie del dibattito dei romantici tedeschi e inglesi sulla morte o sulla sopravvivenza del mito nella poesia moderna, tema che unisce, secondo modalità differenti, Schelling e Hegel, Goethe e Schiller, Hölderlin e Novalis, Shelley e Keats; tuttavia, egli ne individua la differenza fondamentale, secondo la quale Leopardi nega al moderno una poesia e un mito, che in definitiva spettano solo agli antichi. L’espressione del moderno è solo la filosofia, figlia della riflessione eccessiva e del pensiero. Al contrario dei romantici, e Felici rinvia ad Hölderlin, Leopardi rifiuta qualunque prospettiva consolatoria: il moderno è di per sé un’epoca impoetica, perché ha perso illusioni e passioni. Ne sono testimonianza Bruto e Saffo, personaggi che mostrano la definitiva scissione fra divino e umano: se Bruto contrasta gli dei che hanno oltraggiato virtus e pietas, Saffo sceglie l’elegia e la forma dell’interrogazione, riconducendo sul piano della soggettività lo stupore per l’avversità di numi che rendono l’individuo innocente infelice, come se fosse colpevole. Tra la composizione del Bruto minore (dicembre 1821) e dell’Ultimo canto di Saffo (maggio 1822) si pone però Alla Primavera (gennaio 1822), in cui Felici individua ancora la memoria nostalgica delle «favole antiche». Lontani da Bruto e da Saffo, gli dei tornano ancora in tre delle Operette morali del ’24: la Storia del genere umano, il Dialogo d’Ercole e di Atlante e La scommessa di Prometeo, analizzate in questo primo saggio a dimostrare come nelle Operette i miti conoscano una sorta di degradazione, divenendo maschere filosofiche utili al confronto, in un gioco quasi teatrale, delle idee.


torna a inizio pagina

Seguiamo ancora le forme del mito nei successivi saggi del volume: cancellati in maniera evidente nella canzone Nelle nozze della sorella Paolina, di cui si mette in risalto l’alternanza delle simboliche figure di Virginia e Pantea considerate nel confronto tra testo e abbozzo, i miti ritornano in Alla Primavera, o delle favole antiche cui Felici dedica un’attenta lettura, rilevando un certo ermetismo nella scelta di questi ultimi, così come nella cifGiacomo Leopardi (disegno di L. lolli, incisione di G. Guadagnini)ra stilistica scelta. Leopardi preferisce usare nel sottotitolo il termine “favole” e non mito, sottolinea l’autore, rinviando ancora a Vico per l’etimo della parola fabula che significa “parlare” e quindi “comunicare”, “esprimere”. Nel caso di Leopardi, si tratta quindi di considerare i miti come facoltà per parlare con la natura: un dialogo che va inteso in tutta la sua leggerezza, secondo l’interpretazione delle Lezioni americane di Calvino, in quanto proprio la leggerezza, divina, si addice ai miti delle Favole antiche, che appartengono alla primavera dell’umanità. E questo tempo è irrevocabile, poiché l’uomo, figlio della civiltà e dell’analisi, sa che «vote / Son le stanze d’Olimpo». Alla Primavera rappresenta così il congedo dalle favole antiche, per l’uomo che, condannato alla conoscenza, può vivere la poesia solo come tentazione.     
Lontana dagli dei, la Saffo, che Felici studia nel bel saggio intitolato non a caso La canzone dei disperati affetti, simboleggia il cammino dell’antico verso i significati esistenziali propri della poesia sentimentale moderna. Il riferimento alla Delphine di Mme de Staël nel Preambolo alla ristampa delle Annotazioni, pubblicato sul “Nuovo Ricoglitore” nel 1825, è infatti significativo, in quanto comune alla Saffo leopardiana come a Delphine è l’attenzione all’infelicità di un soggetto scisso tra la bellezza dell’anima e la deformità del corpo. Felici coglie anche la vicinanza psicologica fra Leopardi e Corinne, eroina dell’omonimo romanzo della Staël, letto a più riprese dal poeta e citato ampiamente nello Zibaldone. Una vicinanza psicologica che ancora una volta ci conduce alle soglie del moderno, cioè verso quel piacere della sofferenza che segna il distacco dalle modalità del soffrire proprie dell’epoca antica. La pagina dello Zibaldone citata da Felici ci permette di individuare in Leopardi la capacità di storicizzare il dolore, nel momento in cui egli sa che gli antichi naturalmente si volgevano verso la felicità, mentre i moderni ricercano, come lui stesso, il piacere nel dolore. Questo piacere appartiene anche a Saffo, che con Bruto segna il passaggio dall’antico al moderno. In tal senso, la morte di Saffo, che rientrerebbe nelle forme proprie degli antichi, prende luce dalla riflessione leopardiana sul suicidio dei tempi moderni, quando il soggetto che vive è già lontano dalla natura: vivendo contro natura, si può morire contro natura (Felici riporta la citazione da Zibaldone, 1978-1979, del 23 ottobre 1821). Inoltre, l’universalità del dolore espresso da Saffo, la rende ancora più distante dall’antico, quando la sofferenza era del singolo e non elemento comune a tutti i viventi. Del suicidio di Saffo, nota Felici, non c’è descrizione, ma solo la decisione di lasciare che l’anima fugga via libera, in versi che sfiorano l’arcano a chiusura di un canto che sembra esprimere la domanda dell’innocente, comunque colpevole.
Se la lettura della Saffo leopardiana ci conduce verso il moderno, nel disegno della soggettività dilaniata e come colpevole senza esserlo davvero, l’analisi della Quiete dopo la tempesta e del Sabato del villaggio si fonda sulla esemplarità gnomica caratterizzante questi testi, che Felici preferisce chiamare miti - apologhi, piuttosto che apologhi-idilli come Fubini; l’essenza del piacere considerato come sospensione del dolore nella Quiete e come negatività nel Sabato, la nostalgia del sacro evidente in quest’ultima poesia, sono alcuni dei punti sui quali l’autore si sofferma, prima di analizzare le figure presenti nei due canti.


torna a inizio pagina

Nella seconda parte del volume, sono invece esaminate due delle Operette morali: il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie e il Cantico del gallo silvestre. Del primo si accetta l’interpretazione di Galimberti secondo il quale il Ruysch apre una nuova prospettiva che richiama la categoria del “carnevalesco” di Bachtin, secondo il quale la vita carnevalesca è una vita “all’incontrario”, un mondo alla rovescia. Nell’operetta, infatti, il rovesciamento di prospettiva risiede nel vedere la vita dal punto di vista della morte: una considerazione, quest’ultima, che dà luogo a una sorta di teatro della mente, soprattutto nel confronto fra materialismo ed istanza cristiana. In bilico tra scienza e magia, il testo leopardiano conosce suggestioni teatrali, non ultimo l’uso del coro, utili a dosare lo scambio fra razionalità e inconoscibilità, in una tensione crescente verso l’arcano che comprende ogni cosa. Il dialogo si pone quindi, nota Felici, su due piani paralleli, quello della sfera umana, che volge alla commedia, e quello dell’oltre, che prefigura la tragedia dell’ignoto, determinando così una circolarità che si rispecchia in quella del Coro. Lontani ormai dalle forme del mito, il dialogo del dottor Ruysch con le mummie e il cantico del gallo che annuncia la fine del mondo ci conducono verso una visione materialistica e metafisica nello stesso tempo. Se nel Ruysch entrano in conflitto due tensioni, quella materialistica e quella cristiana, il Cantico del gallo silvestre diviene la cifra conclusiva di un percorso che non volge tanto al nulla delle cose, quanto all’arcano. L’arcano si pone allora, scrive Felici, come «un interstizio tra nulla e nulla che offre l’ultima occasione ai moderni di fare poesia» (p. 183). E la figura scelta da Leopardi per delineare il luogo del mistero è appunto il mitico gallo ripreso dalla tradizione orale dai targumim e dai Talmud, il gallo silvestre, gigantesco, che ha i piedi sulla terra e che tocca con la cresta e col becco il cielo. Il suo è un canto di dolore, non di lode del creato. Animale dell’origine, immobile nel legno-materia di cui è fatto, Leopardi lo sceglie per cantare al mattino, simbolicamente principio della vita. Il gallo si auto-interroga, nota Felici, attraverso domande retoriche in sequenza che sottolineano la sofferenza del cosmo intero. La visione apocalittica mostra dunque che l’universo è soggetto allo stesso destino dell’individuo, il disfacimento, che in una nota nell’edizione fiorentina delle Operette del ’34, viene però negato da un punto di vista filosofico (Felici ne riporta il finale: «Questa è conclusione poetica, non filosofica. Parlando filosoficamente, l’esistenza, che mai non è cominciata, non avrà fine»). Questa visione si lega attraverso le domande che segnano il non-senso dell’esistenza all’inno Ad Arimane, composto nella primavera del 1833. Con questo saggio Felici chiude il suo libro: dal rifiuto del mito, proposto nel primo saggio del volume, alla genesi dell’inno Ad Arimane il suo discorso segue un filo unico che individua infine in Leopardi la crisi della divinità. Perduta la fantasia che animava le favole antiche, l’uomo moderno, vittima in certo qual modo della civiltà, mette in discussione la possibilità di parlare con un dio-persona o di un dio-persona. L’esistenza del dio viene in fondo negata, soprattutto nelle riflessioni dello Zibaldone del 1821, che scivolano verso relativismo e nichilismo. Dio è quindi il nulla. Proprio per questo l’inno ad Arimane si inserisce in una teologia negativa, ma nello stesso tempo accoglie ancora una volta lo slancio dell’io leopardiano che chiede la morte come ricompensa per essere stato il maggior predicatore del dio, suo vero apostolo, smascherando le trame del male di cui è ordito l’intero universo. Tuttavia, la conclusione di questo saggio, posta come fine dell’intero volume, ci allontana dallo scenario dell’apocalissi e dell’impero del male, per restituire la personificazione della lotta dell’esistente contro l’ente alla fragilità della ginestra, umile e profumato fiore del deserto, posto sul fianco dello «sterminator Vesevo», il vulcano che, conclude Felici con Galimberti lasciando sospesa la conclusione del discorso in una significativa allusione non espressa, nella mitologia iranica veniva identificato proprio con Arimane.


torna a inizio pagina

Lucio Felici
L' Olimpo abbandonato. Leopardi tra «favole antiche» e «disperati affetti»
Venezia, Marsilio, 2005
(Saggi . Testi e studi leopardiani ; 8)
ISBN 8831788833


torna a inizio pagina

© Biblioteca Nazionale di Napoli (maggio 2006)
I testi pubblicati sono di proprietą della Biblioteca Nazionale di Napoli (Ministero per i Beni e le Attivitą Culturali). E' concessa la riproduzione parziale citando la fonte.