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Percorsi bibliografici | Leggere per immagini

Leggere per immagini
Marcello Andria

Testo dell’intervento tenuto il 14 novembre 2005  presso la Biblioteca Nazionale di Napoli in occasione della presentazione del volume Leggere per immagini. Edizioni napoletane illustrate della Biblioteca Nazionale di Napoli. Secoli XVI e XVII.

L’autore, già bibliotecario della Biblioteca Nazionale di Napoli, è attualmente direttore del Centro di Servizio di Ateneo per le Biblioteche (Università degli studi di Salerno).

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Leggere per immagini. Edizioni napoletane illustrate della Biblioteca Nazionale di Napoli. Secoli xvi e xvii. Napoli, Biblioteca Nazionale di Napoli, 2005 (Quaderni della Biblioteca Nazionale di Napoli, Serie ix, n. 7)
Coordinamento scientifico  e saggio introduttivo
Paola Zito
Curatori
Silvana Acanfora, Patrizia Antignani, Daniela Bacca, Vincenzo Boni, Silvana Gallifuoco, Maria Iannotti, Maria Gabriella Mansi, Lucia Marinelli, Simona Pignalosa, Piera Russo, Paola Zito
Prefazione
Mauro Giancaspro


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L’omonima mostra bibliografica, allestita nella Sala Leopardi del Palazzo Reale di Napoli per il Maggio dei Monumenti del 2002, è all’origine di questo volume. Già allora l’abbondanza e la rilevanza degli esiti della ricerca collettiva indussero a pensare alla pubblicazione che oggi vede la luce. Le mostre passano, i cataloghi restano: assolutamente prioritario puntare su una realizzazione editoriale che non solo condensasse le tracce tematiche dell’esposizione, ma che restituisse integralmente i risultati del sondaggio. Perché ciò che distinse quella iniziativa da tante altre dello stesso genere fu la scelta – che oggi appare più che mai lungimirante – di partire da una accurata perlustrazione delle raccolte, da un attento e capillare scandaglio del posseduto. La straordinaria ricchezza dei fondi antichi della Nazionale indusse, pertanto, i curatori a tralasciare il tradizionale approccio mediato da cataloghi, inventari, repertori o altra documentazione bibliografica, e ad indirizzarsi direttamente agli scaffali, per portare in evidenza, accanto a titoli celebri e studiati, tanto materiale poco o per nulla conosciuto, e mettere insieme, infine, un corpus di testimonianze in grado di documentare l’evoluzione delle forme, del gusto e del valore simbolico della stampa illustrata napoletana di età viceregnale. Dunque, un’indagine che, avendo rinunciato alla semplice descrizione dei pezzi esposti al pubblico, allarga ora il suo obiettivo fino ad abbracciare un’intera collezione, che risulta più che rappresentativa della produzione appartenente ad una lunga fase di storia dell’editoria: dal periodo di consolidamento dell’ars artificialiter scribendi alla capillare diffusione seicentesca delle officine.
Se è vero che, soprattutto nel xvi secolo, la tipografia napoletana non può competere con i vertici qualitativi e quantitativi della coeva produzione veneziana o romana, è altrettanto indubbio che più di mille edizioni cinquecentesche e oltre quattromila seicentesche – reperibili per i due terzi circa tra le raccolte della Nazionale – formino un complesso di assoluto rispetto nel generale panorama italiano ed europeo, che induce ad una globale riconsiderazione del fenomeno. Delle quarantuno fabriche tipografiche finora censite a Napoli nel Cinquecento, più della metà cede alla seduzione dell’immagine. Fra queste le ben note officine di Sigismondo Mayr (alle quali non erano finora ascritte edizioni illustrate), di Giovanni Sultzbach (che stampa Il glorioso triumfo di Giovanni Domenico Lega con l’apparato allestito per l’entrata in città di Carlo v), del bresciano Mattia Cancer (dai cui torchi escono l’edizione incriminata della Magia naturalis di Della Porta, datata 1558, e il trattato militare di Pedro de Salazar), di Giuseppe Cacchi, di Giovan Battista Cappelli (che illustra, tra gli altri, Tommaso Costo e Luigi Tansillo), di Carlino e Pace, di Costantino Vitale, a cui si deve il celeberrimo in-folio dell’Historia naturale di Ferrante Imperato, contenente la grande tavola raffigurante il suo Museo. Ma è ad Orazio Salviani che spetta il primato cinquecentesco dell’illustrazione libraria napoletana: alla sua tipografia si deve un raffinato repertorio, sia xilografico sia calcografico, che spazia dall’iconografia devozionale delle artes moriendi al ritratto, all’illustrazione scientifica.
Nel corso del Seicento – quando, secondo i dati già addotti dal Giustiniani, il numero degli addetti ai lavori va progressivamente incrementandosi fino a triplicarsi – mediamente un terzo del catalogo dei più noti titolari di imprese tipografiche include immagini. Non si sottraggono a quest’uso crescente i più prolifici: Scipione Bonino, Tarquinio Longo, Maccarano, Montanaro, Roncagliolo, Lazzaro Scoriggio, Giovan Battista Sottile. E alcuni oltrepassano la media, come Giacomo Gàffaro senior, sotto i cui torchi vedono la luce i trattati scientifici di Filippo Finella e Francesco Fontana.


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Un dato che conferma la sua evidenza intorno alla metà del secolo, per poi ascendere fino al 40% circa dell’intera produzione editoriale nell’ultimo quarto del secolo, quando si può ben dire che, per i livelli qualitativi raggiunti, Napoli entri nel circolo delle capitali europee dell’editoria: basti citare qui qualche esempio, come il prezioso manuale di scherma del Morsicato Pallavicini pubblicato da Cavallo junior, le Lettere memorabili del Bulifon o la Guida de’ forestieri di Pompeo Sarnelli; o, ancora, il famosissimo Giro del mondo di Gemelli Careri edito dal Roselli, che segna il passaggio al secolo dei lumi.
Dunque, all’interno di una compagine già di per sé rilevante, la stampa illustrata assume connotazioni di notevole spessore. Compongono l’ampia trama del catalogo ben 1.114 edizioni (166, se non erro, datate al xvi secolo, tutto il resto al xvii, con una curva in costante ascesa, se si fa eccezione per il brusco calo conseguito alla peste del 1656): da quelle arricchite da semplici vignette xilografiche a quelle, numerosissime, con antiporta o frontespizio illustrato, a quelle che racchiudono tavole ripiegate di grande formato, a quelle contraddistinte da un vero e proprio apparato iconografico.
La rassegna consente di rilevare in primo luogo come l’incisione su legno, nettamente prevalente nel Cinquecento, ceda il primato, nel corso del secolo successivo, a quella su rame, rimanendo per lo più ancorata al libro ‘popolare’, nel cui contesto incisivo ed essenziale le immagini xilografiche coerentemente assolvono istanze didascaliche. Distinzione, questa fra libro cólto e libro popolare, che è peraltro destinata a ricomporsi, nel corso del secolo, entro il profilo di un prodotto medio e socialmente trasversale. Pur tuttavia, l’immagine xilografica permane, in una percentuale pari a poco meno di un terzo, intervallata al testo del libro a commentarne il percorso. Se generalmente anonime appaiono le figure tratte da matrice lignea, quelle calcografiche, invece, recano con frequenza sigle o firme.
E qui vorrei sottolineare quello che mi pare uno dei maggiori pregi del catalogo: la sezione Gli artefici dell’immagine (curata da Maria Gabriella Mansi, Lucia Marinelli e Simona Pignalosa) che, premessa alla descrizione bibliografica, raccoglie 111 dettagliati profili biografici di maestri disegnatori e incisori. Un contributo importante, che salda le informazioni attinte a repertori tradizionali o banche-dati con le evidenze scaturite dal lavoro sul campo.
Anche qui, accanto ad artisti rinomati, ne figurano altri di minore fama, se non quasi emersi dall’oblio. Spiccano tra gli italiani: Alessandro Baratta, autore nel 1629 della celebre veduta Fidelissimae Urbis Neapolitanae, a cui i curatori attribuiscono l’elaborazione delle scene tratte dalla Vita e miracoli di san Francesco di Paola di Orazio Nardino; Bernardo Castello, l’allievo del Cambiaso che legò il suo nome al famoso ciclo della Gerusalemme liberata, riprodotto anche ne Lo Tasso napoletano del Fasano; Francesco de Grado, che lavorò per Bulifon e Parrino, al quale si deve il monumentale albero genealogico della famiglia Carafa inserito nell’opera dell’Altomare; il romano Giacomo Del Po, che è artefice, per esempio, del suggestivo corredo iconografico de Gli stimoli del sacro timor di Dio di Carlo Casalicchio, o della celebre antiporta del Tasso napoletano con il profilo della città vista dal mare, il Sebeto e la sirena Partenope; sua sorella Teresa che, oltre a sofisticate scene di piccolo formato per edizioni del Raillard, è autrice della tavola con l’apparato funebre di Antonio Miroballo disegnata dal Vaccaro. Per inciso, accanto alla Del Po affiorano altre due nomi femminili: quello di Giovanna Dorotea Pesche, con ogni probabilità figlia di Federico, e quello della veneziana suor Isabella Piccini, prolifica produttrice di bulini e acqueforti per edizioni della sua città d’origine.
E, ancora, Pirro Antonio Ferraro, il cui splendido Cavallo frenato sarebbe stato fortemente voluto da Filippo ii; il raffinato Andrea Magliar, che domina sullo scorcio del secolo, lavorando per Bulifon e Raillard, Mollo e Parrino; Federico Pesche, forse il miglior calcografo della seconda metà del Seicento, a cui si devono le riproduzioni dei monumenti napoletani raccolte nella guida del Sarnelli; il grande Filippo Schor, che, giunto a Napoli al séguito del marchese del Carpio, incide il frontespizio del Genio bellicoso di Filamondo.
E, accanto a questi, saltano all’occhio i nomi noti di Luca Giordano, Paolo De Matteis, Francesco Solimena, che fra una tela e l’altra non disdegnano di comporre antiporte e tavole per gli editori e tipografi napoletani. A conferma ulteriore, se mai ce ne fosse bisogno, di un’interscambiabilità dei ruoli, che porta i professionisti dell’incisione a dipingere affreschi o pale d’altare, ma anche affermati pittori a prestare la loro mano autorevole al mondo del libro: una «intensa osmosi che pervade tutto l’orizzonte delle arti visive», scrive Paola Zito, smentendo ogni rapporto di subordinazione delle cosiddette ‘arti minori’ alle maggiori.


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Ma colpisce pure, in questa rassegna biografica, la cospicua presenza di artisti francesi o di area fiamminga impegnati a Napoli nel settore librario. Fra i più attivi: Jacques Blondeau, artefice, per esempio, della elegante allegoria, raffigurante la gloria che sconfigge il tempo, premessa all’epitome salernitana di Antonio Mazza (tema, questo, di ascendenza petrarchesca, caro agli studi iconologici del Panofski); François de Louvemont, artefice di ritratti, antiporte, frontespizi, oltre che delle scene, disegnate da Solimena, che illustrano i Piscatoria et nautica di Nicola Partenio Giannettasio; Jacques Thouvenot, che in poco più di un decennio a cavallo della metà del secolo, scolpisce a Napoli frontespizi, antiporte, apparati celebrativi per più di un tipografo. Ma si potrebbero ancora menzionare Dominique Barrière, Jean-Baptiste Brisson, Albert Clouet, Joan Comin, Mathäus Greuter, Fabien e Pierre Miotte e tanti altri, a dimostrazione della forte propensione cosmopolita dell’editoria napoletana del tardo xvii secolo.
Un caso singolare è quello di Nicolas Perrey, che, sebbene sia appena menzionato da dizionari bio-bibliografici e repertori, va ritenuto forse il maggiore ‘fabbricante di immagini’ attivo a Napoli nel Seicento. Perrey domina la scena per circa mezzo secolo, cimentandosi in frontespizi e antiporte, immagini devozionali e scientifiche, cicli allegorici e apparati festivi. È autore, peraltro, sia degli imponenti carri con i quattro continenti, sfilati nel 1659 per la nascita dell’infante di Spagna, sia del magnifico ciclo iconografico che accompagna il Theatrum omnium scientiarum.
Quest’ultimo, che è forse il miglior prodotto editoriale napoletano di ancien régime, nacque dall’esigenza di tramandare memoria dell’apparato allestito, per volere del conte di Oñate, in occasione della riapertura dello Studio napoletano dopo i moti insurrezionali del 1647. La solenne cerimonia si avvalse di un fastoso addobbo allegorico di drappi in seta dedicati ai temi della sapienza e della saggezza, collocati lungo il percorso del teatro del Ginnasio. Le incisioni del Perrey integralmente riproducono emblemi, phrenoschemata ed imprese nel volume dedicato al vicerè (“Princeps sapientissimus”, a cui si deve la rinascita della cultura), uscito dai torchi di Roberto Mollo nel 1650: un repertorio di grande impatto estetico e ricco di cólte invenzioni, che fonde il solido impianto erudito derivante da un Alciati o da un Ripa con la lezione artistica del pieno barocco meridionale.
Caso da segnalare è, poi, quello di botanici, anatomisti o naturalisti, che siglano anche le immagini poste ad esemplificazione dei loro testi scientifici: e così Fabio Colonna per il suo Phytobàsanos, Jean Germain per il Breve et sustantiale trattato intorno alle figure anatomiche, l’entomologo Francesco Redi.
Nel trarre una sintesi sul rapporto che lega l’immagine al testo, Paola Zito, nella sua lucida e penetrante introduzione al volume, rileva una simmetria imperfetta, una mancata specularità dei due elementi. L’incisione si assume l’onere di attraversare, parafrasare, riassumere una trattazione che non sempre offre solidi appigli alla rappresentazione. E, più che compensare un vuoto testuale, tende a potenziare l’orizzonte semantico. Si elabora, in fondo, come ha osservato la Bolzoni, un linguaggio misto, che si insinua negli spazi che separano la parola dall’immagine, il codice linguistico da quello visivo, esperendo un’ampia gamma di combinazioni. «Il testo diviene così» (cito testualmente dall’introduzione, n. d. r.) «edificio, galleria, teatro da rivisitare con gli occhi della mente. Bisogna che le figure […] sappiano ‘visualizzarne il significante’, intercalando, o sostituendo, o affiancando la scrittura, come all’interno di una dinamica e semiludica ‘scacchiera’ […] Per alimentare la vis memorativa, niente di più adatto che una ordinata sequenza di imagines agentes».
Imagines non sempre innocue, che talora insinuano nella trama della scrittura implicazioni non ortodosse, talaltra tendono a semplificare, o a depurare, il dettato testuale dalle tentazioni ereticali.
Una notazione separata meritano, al riguardo, i libri illustrati incorsi nei rigori della censura.
Intorno alla metà del xvi secolo, le Prammatiche emanate da Pedro di Toledo (1544) e l’Index librorum prohibitorum di Paolo iv Carafa (1559) istituiscono, come si ricorderà, il duplice controllo, civile ed ecclesiastico, sulla stampa. Al tiro incrociato non si sottrae, naturalmente, l’editoria con figure: diciotto titoli in tutto, cinque cinquecenteschi e tredici seicenteschi, si impigliano nelle maglie della censura: al caso poco noto del Liber de gratia di Girolamo Sirino (1539) – dove non è tanto la tradizionale immagine xilografica della Crocifissione a destare sospetti, quanto piuttosto l’acceso misticismo del testo di impronta pelagiana – fanno séguito i ben più celebri episodi di Tansillo, del De rerum natura di Telesio, di Campanella e della Magia naturalis di Della Porta; e, sul finire del xvii secolo, quello del francescano Carlo Casalicchio, autore degli Stimoli al sacro timor di Dio cavati dalla morte pessima de’ peccatori, opera integrata dal già citato corredo iconografico a firma di Giacomo e Teresa Del Po.

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Un ampio spettro di temi, di tecniche e di stili, una grande varietà di combinazioni caratterizzano il repertorio affrontato. Ma quali i soggetti trattati?
Resistendo alla tentazione di descrivere analiticamente le immagini rinvenute – il che avrebbe esposto un repertorio di non facile decifrazione ai rischi di un’interpretazione marcatamente soggettiva – i curatori, a mio avviso opportunamente, applicano alle oltre mille schede bibliografiche una sorta di griglia di classificazione, articolata in quindici intestazioni.
Domina, come era ampiamente prevedibile, l’immagine di impronta religiosa, dagli Officia dei primi decenni del Cinquecento, discendenti diretti dei libri d’ore, al repertorio, composito e suggestivo, elaborato dalla devozione barocca, che reca spesso i tratti oppressivi e minacciosi del messaggio teologico controriformistico. Fra i tanti proponibili, un esempio ingenuo ed eloquente al tempo stesso può fornire la tavola, riprodotta in catalogo, tratta dal Lume a’ vivi dall’esempio de’ morti di Francisca del SS. Sacramento, una delle non molte autrici presenti, dove la religiosa è ritratta a colloquio con anime purganti avvolte dalle fiamme, dalla cui bocca fuoriescono dei cartigli con frasi quali «È poco questo fuoco al fumo de’ miei capricci», «Per le mie gale sono tormentata fieramente», «Con rigore pago il tempo perduto».
Segue a breve distanza l’allegoria, intesa in senso lato come raffigurazione mitologica o come effigie simbolico-emblematica. Come già intuiva Mario Praz, emblemi e imprese investono non soltanto le espressioni del concettismo cinque-seicentesco, ma anche la comunicazione religiosa. Accorti registi di questa operazione, i Gesuiti li utilizzano a scopo didattico e propagandistico sia nella produzione libraria sia nella decorazione di chiese e apparati festivi: «La fissità del quadro emblematico» – ha scritto Praz – «era infinitamente suggestiva; il contemplante se ne lasciava a poco a poco intaccare l’immaginativa, come la lastra da un acido. L’immagine finiva per vivere con un’intensità distaccata sulla pagina, allucinatoria».
Molto rappresentate sono pure la ritrattistica – che predilige potenti e nobili, ecclesiastici o laici che siano, ma anche gli autori, i curatori, i dedicatari – e l’araldica, che celebra fasti e discendenze delle famiglie aristocratiche del viceregno. E, ancora, i temi più strettamente legati alla capitale e al suo territorio: la cartografia, nel cui ambito l’opera di Giovan Battista Pacichelli raccoglie a fine Seicento i volti di tutti i centri principali; la vedutistica e le raffigurazioni di monumenti, chiese e scorci di Napoli e dei suoi dintorni, recati dalle tante Guide che si succedono, citando e ampliando le precedenti; gli apparati effimeri, che in tavole ripiegate di grande formato tramandano memoria di trionfi, caroselli, scenografici allestimenti festivi o funebri realizzati in città – spesso al Largo di Palazzo – per matrimoni, nascite o lutti.
Non particolarmente privilegiati da disegnatori ed incisori – come ci si potrebbe attendere per la naturale predisposizione di episodi o scene alla rappresentazione figurata – i testi più propriamente letterari o teatrali. Vanno, pur tuttavia, segnalate alcune significative eccezioni, come i titoli di Nicola Partenio Giannettasio: fra questi, i Bellica, opera pressoché ignota, i cui esemplari sono impreziositi da un fitto corredo di rami a firma di Solimena e Magliar. O, in ambito teatrale, l’Argomento del Demetrio, tragedia di Francisco Navarrete.
Scorre, insomma, sotto gli occhi del lettore una inedita e significativa galleria di immagini: fin dal tratto netto ed incisivo della prima xilografia riprodotta – una suggestiva caduta degli angeli ribelli, tratta dall’Officium pro cunctis diebus dominicis di Andrea Matteo Acquaviva (1519), in cui le figurine alate, già trasfiguranti in immagini demoniache con coda e piede caprino, precipitano dall’alto verso le fiamme infernali, incalzate dalle spade degli angeli buoni.
Sarebbe anzi di grande interesse che gli esiti della ricca campagna fotografica realizzata in occasione della mostra e del catalogo fossero integralmente messi in rete, confluendo nella Biblioteca digitale del sito della Nazionale.
Ben completano il volume gli utilissimi e copiosi indici (per tipografo/editore, per anno, per disegnatore e/o incisore, oltre quelli per soggetto di cui si è detto), che ulteriormente lo valorizzano, agevolandone la consultazione.
In definitiva, se è pur lecito e dilettevole sfogliare un libro per guardarne «solo le figure» – cito dall’introduzione di Mauro Giancaspro – è d’altro canto utile disporre di uno strumento di studio e di lavoro, prezioso e denso di spunti e di rilevanti contributi di novità, del quale d’ora in poi storici dell’editoria e dell’incisione dovranno necessariamente tener conto come di un vero e proprio repertorio.


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Novembre 2005 - © Biblioteca Nazionale di Napoli