L'eresia del libro grande. Storia di Giorgio Siculo
e della sua setta /
Adriano Prosperi
di Paola
Zito
Adriano
Prosperi
L'eresia del libro grande. Storia di Giorgio Siculo e della
sua setta
Milano, Feltrinelli, 2000
Tutto
era stato predisposto alla perfezione, quel 30 marzo del 1551, lunedì di
Pasqua. La scena allestita con ogni cura dei particolari nella cattedrale
di Ferrara, la presenza straordinaria del ‘grande inquisitore’ Michele
Ghislieri - il
futuro papa Pio V -, la
lunga lista dei capi d’accusa, e il reo sul palco,
pronto a prendere la parola per dichiararsi pentito dei suoi gravissimi
errori ed implorare umilmente il perdono di Santa Madre Chiesa, secondo
la formula rituale. Ebbene, proprio allora, all’apice della tensione,
si verifica un eccezionale coup de théâtre, nello
sconcerto generale. Con impudenza senza precedenti, l’eretico
dichiara di aver cambiato idea. Improvvisamente, non ha più la
minima voglia di abiurare. E non c’è modo di fargli intendere
ragioni. Alle autorità ecclesiastiche, che si accingevano ad
archiviare con successo un caso dei più spinosi, non resta che
ingoiare il boccone amaro di una beffa – chi lo sa, forse addirittura
premeditata – subìta al cospetto del pubblico delle grandi
occasioni. L’indignazione è al culmine, e a giusto titolo.
Al perfido istrione non verrà concessa una seconda possibilità.
Meno di due mesi dopo, il 23 maggio, verrà strangolato in carcere,
nella più assoluta segretezza, senza nemmeno la consueta assistenza
dei confortatori che lo aiutassero a ben morire. Come se dal
patibolo avesse potuto ancora escogitare qualche espediente per trasformare
di nuovo la cerimonia catartica in livida farsa. Il tragico epilogo
non bastò a placare lo sdegno di Giovanni Maria Albini, il canonico
incaricato di redigere la cronaca della festa mancata, che meditò a
lungo una ulteriore vendetta, a titolo squisitamente personale. Nel
1562 compose il Trionfo di Giesu Christo, un poema in gran parte
costituito dalla rassegna dei nemici di Santa Madre Chiesa, in balìa
dei diavoli dell’inferno. Gli riservò l’ultimo posto,
quello spettante al più perverso.
Il peggiore
di quanti venivano degnamente ospitati nelle dimore di Satana era Giorgio
Siculo, un monaco benedettino, precipitosamente arrestato nel settembre
del 1550, insieme ai confratelli Luciano degli Ottoni e Benedetto Fontanini.
Gli veniva contestato, stando al negativo fotografico delle proposizioni
condannate, di non credere alla Trinità, ai sacramenti, ai miracoli,
all’esistenza dei regni dell’al di là, di aver ritenuto
l’anima umana materiale. E, per di più, di averlo fatto
senza mediazioni né sfumature, con una intransigenza che ricorda
le posizioni altrettanto radicali del Serveto (che la pagò altrettanto
cara). Ce n’era abbastanza per trovarsi nei guai fino al collo,
anche in tempi meno difficili di quelli. Ma non era furia blasfema la
sua. Al contrario, era fede in un Dio di misericordia che, pur avendo
concesso agli uomini il libero arbitrio, tutti li assolveva –
santi e peccatori – per i meriti del sacrificio della Croce. La
morte di Cristo metteva al riparo – a suo dire - dall’incubo
della dannazione eterna. E l’oscura minaccia della predestinazione
si apriva alla rassicurante prospettiva di una elezione universale.
Nessuno doveva dunque temere di precipitare negli abissi del male.
La via larga alla salvezza rendeva in qualche modo superflua
l’intercessione del clero, e svuotava di significato la rigida
impalcatura gerarchica che proprio allora serrava le file con ogni energia.
Una dura offensiva veniva così sferrata alla sapiente regìa
del senso di colpa che tante coscienze, in Italia e oltralpe, teneva
in scacco. Un caso archetipico aveva fatto particolarmente scalpore
in quegli anni: la fine disperata di Francesco Spiera, da cattolico
divenuto luterano, e da luterano cattolico, per paura. Si era spento
il 27 dicembre del ’49, attanagliato da atroci rimorsi, e preda
dei più foschi presagi sulla sua sorte ultraterrena. Per Giorgio,
non sarebbe incorso nell’ira divina; il sangue del Redentore lo
riscattava da ogni addebito. Il suo parere, espresso questa volta con
prudenza nicodemitica in forma di Epistola … alli cittadini
di Riva di Trento, poté diventare opuscolo a stampa, guadagnando
notorietà e risonanza.
Simili
idee, lungi dall’essere isolato delirio, trovavano calorosi consensi
in più ambienti, religiosi e laici, nonostante i rigori del
divieto. Uomini e donne – fra le altre una Adriana quaedam
suspecta – sfidavano la cappa censoria per pacificare i conflitti
interiori, lenire gli scrupoli, confortare gli agonizzanti. E non soltanto
a parole. Il messaggio circolava anche per iscritto. Testi solitamente
anonimi, spesso recanti note tipografiche contraffatte, godevano di
ampia diffusione clandestina: si segnala nel novero il vero e proprio
successo editoriale (quarantamila copie vendute tra il ’43 e
il ’49) del Beneficio di Cristo, un dolce libro,
inserito fin nei primi abbozzi dell’Indice tridentino, la cui
corretta attribuzione ha costituito un problema storiografico non da
poco, fino a tempi relativamente recenti. Al 1975 risale la pubblicazione
del celebre Giochi di pazienza, dove Carlo Ginzburg e Adriano
Prosperi restituivano gli esiti di un proficuo lavoro seminariale che,
esaminando a tappeto l’intreccio di fonti e testimonianze, confrontando
e collazionando, perveniva a fare il punto sulla complessa redazione
dell’operetta. Alle origini di quella trama dipanata da Benedetto
Fontanini e più volte revisionata e ritoccata, la cifra profonda
del discorso allude in maniera stringente alla dottrina del Siculo,
ma non a quella essoterica dell’Epistola, bensì alla
versione integrale, restituita alla sua autentica radicalità dalla
drastica lente d’ingrandimento inquisitoriale. Non a caso, la
colpa che costò la prigione a don Benedetto – la più pesante
imputazione a suo carico - consisteva nell’aver conservato gelosamente,
invece di consegnarlo o bruciarlo, un libro di Giorgio, suo amico e
sodale di lunga data. Con ogni probabilità si trattava del libro
grande o libro maggiore, di cui recano notizia alcuni documenti
dell’epoca.
Dopo
venticinque anni di studio e di fondamentali contributi sulla storia
delle idee di Cinque e Seicento, Prosperi ritorna sulle tracce del
volume – Delle verità christiana et dottrina appostolica rivellata
dal nostro signor Giesu Christo al servo suo Georgio Siculo della terra
di santo Pietro, così in realtà si intitolava –,
dedicando al suo autore una monografia che ricostruisce l’intera
vicenda in un sapiente mosaico. Ma, per quanto acume e perizia siano
stati impiegati nell’indagine, il libro grande, pestilentissimo depositario
dell’eresia più perversa, tuttora non è emerso.
Né manoscritto né a stampa, nell’edizione in latino
che apparve tra il 1565 e il ’66. L’operazione di rastrellamento
delle copie dovette essere così capillare, la macchina della
confisca così meticolosa e efficiente, che nessun esemplare
pare sfuggito alla distruzione. Tanto il contenuto di quelle pagine
faceva spavento. Ghislieri non era certo uomo da rispermiare zelo in
un’impresa del genere.
Ma
i giochi di pazienza non finiscono mai. I fondi antichi delle nostre
biblioteche somigliano – si
sa – agli esagoni della borgesiana Babele, e il loro scandaglio – la
loro resa assoluta al catalogo - è work in progress dalla
durata indefinita. Consentono sempre di confidare in insperati ritrovamenti,
magari del tutto fortuiti. Può darsi che, prima o poi, il libro
grande venga fuori, con un incipit preso in prestito al
più ortodosso dei manuali di teologia, o con la più fuorviante
delle intestazioni, come era accaduto allo Speculum della beghina
Porete, tramandato per secoli sotto il nome di una santa. Forse, bisognerà smascherare
un travestimento bibliografico tanto astuto da depistare, oltre a Ghislieri,
anche i ricercatori contemporanei.
Illustrazioni:
1) La copertina del volume
2-3) Particolari del frontespizio inciso di un Index
librorum prohibitorum pubblicato nel 1763