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Simone Weil. Un’intima estraneità /
Angela Putino
di
Nadia Nappo
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Simone
Weil partecipò nel 1937
insieme a suo fratello André alle riunioni di un gruppo di matematici
(gruppo Bourbaki) intenti a studiare gli esiti della teoria di Cantor
sugli infiniti attuali. Un episodio considerato poco importante e sempre
posto ai margini della biografia di Simone Weil, che invece è stato
messo sapientemente in luce da Angela Putino, nel suo ultimo libro
dal titolo: Simone Weil. Un’intima estraneità (Città Aperta,
Roma, 2006), dove ne dà un’acuta e originale interpretazione. È quell’infinitamente
piccolo, quel niente che sposta e trasforma gli interessi di studio
della giovane pensatrice francese. Sarà a partire da quell’incontro
che, secondo la Putino, Simone Weil arriverà a un proprio concetto
di “intima estraneità”, come scrive Roberto Esposito
in quarta di copertina: se l’infinito può contrarsi
in un nucleo prossimo al nulla, il desiderio può ospitare il
dolore e la comunità la solitudine. A partire dalla relazione
con il fratello la Weil percepisce che per lui soltanto, e non per
lei, possono
essere spalancate le porte della conoscenza:
comprende
che solo attraverso un significante raccolto in sé, avvertito
fino in fondo, lei avrebbe trovato parola […] Aspettare
che qualcosa venga, qualcosa che non è incluso nell’ordine
contabile. Un «qualcosa», come l’irruzione
di un infinito che prende contatto con il continuo indecifrabile
della sua esistenza muta di donna. Infinito che è un molteplice,
fuor di conto, e che perciò la tocca e dà a quella
sua estraneità,
a quella sua incapacità, un accesso alla molteplicità transfinita.
Muoversi nell’accadere senza un sapere che lo predica, lasciarsi
andare a ciò che capita in un «incondizionato» (pp.
167-68).
È proprio da quell’incontro
che “l’impossibile” di trovare una parola propria
diventa possibile. Dalla sventura irrompe un lasciarsi andare verso
qualcosa che capita, un punto di curvatura verso il reale. In tale
zona si è confinate/i, ma solo a partire da questo luogo non
luogo è consentito il ribaltamento.
Simone
Weil si servirà della
matematica degli infiniti cantoriani per sottolineare quella cesura
tra il comune simbolico e il passaggio che viene offerto dalla
mistica. È necessario uno stare fuori, una
abiezione consapevole e che non mira a riscattarsi, per accedere
a qualcosa che non è più la configurazione dei possibili
che l'usuale contabilità simbolica propone (p.
103).
Nel
ripercorrere il passo della Weil sulla sventura delle donne troiane – che
si trovano a piangere dolori altrui dal momento che hanno perso sentore
dei propri, e così le
lacrime in qualche modo hanno strada per scorrere (p. 101) – Angela
Putino ritrova il pensare la differenza sessuale. Non abitando più alcun
luogo, le donne troiane sono deprivate di quel simbolico che le avrebbe
permesso di stanziarsi. Le figure femminili
dell’Iliade, immerse nell’orrendo contesto della
guerra, diventano delle schiave date al vincitore. Ne L’Iliade,
poema della forza, la Weil scrive che allo schiavo non è concesso
essere fedele alla propria città, ai propri morti. In nessuna
occasione lo schiavo ha il permesso di esprimere qualcosa, se non ciò che
può far piacere al padrone. Potrà piangere solo quando
vedrà soffrire uno di quelli che gli hanno fatto perdere tutto.
Soltanto in quel caso il pianto gli è concesso e piangerà,
sì impunemente, ma investito da immenso dolore. In una tale
sventura per poter avere un proprio agire bisogna aspettare che qualcosa
avvenga, qualcosa che non è incluso, che prende luce da fuori,
ed è in sé raccolto. Diventa un punto di curvatura ed
Angela lo spiega così:
Quando
il simbolico non tiene, è dalla
parte abietta che non vi è tenuta che s’inizia il
passaggio, come insegnano i mistici. Inizia con modulazioni matematiche.
Lo iniziano donne? Sarei propensa a dire di sì – in
molti filosofi e non, c’è un atteggiamento che volge
al «divenir donna» – essenzialmente perché dove
non si passa per le forche caudine di una totalità, i passaggi
divengono possibili per chiunque, ma a certe condizioni. Ricavo
proprio dal modo di coesistere delle donne - il cui legame non è precostituito
da un elemento che messo fuori le enumera come avviene con il fallo
- qualcosa che ha a che vedere con un nuovo modo di porre gli universali
e che mi sembra anche molto vicino a quella linea weiliana che,
di ciò che spesso prende forma solo nell’ordine dimostrativo,
fa un oggetto di ‘Scientia sperimentalis’. Il che significa
anche che nulla si può
dire se non attraverso una partecipazione diretta, mossi da una domanda
e da un'inquietudine particolari, cioè parziali, e questo è esattamente
quanto conduce l'incarnazione. (pp.108-09).
Nella
foto: Simone Weil, in piedi; seduti, da destra a sinistra:
André Weil,
Henri Cartan e Jean Delsarte durante il congresso Bourbaki a Chançay
1937 (da:
Angela Putino, Simone Weil. Un'intima estraneità, Troina,
Citta aperta, [2006] , p. 17)
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Per
la Putino solo da un fuori ad un fuori si passa ad altro, che altro
non è se non il reale, una passione
di dirsi che sta nel reale e continua ad avere contatti con i resti,
pertanto con il non dicibile. In tale zona si vede l’altro, si
va verso i modi relazionali. Una relazione con un tu, muove da un tu
e conduce a un tu. Un tu che arresta il male su di sé a partire
dalla sventura. Qualsiasi movimento può risvegliare “il
senso della ferita”, quindi solo un tu vuoto di sé può non
far male. Un altro la cui unica attenzione è rivolta a non far
male. Per questo l’Antigone è un’incarnazione di
Dio. La sorella è
testimone della ferita, arresta il male su di sé, non vuol far
male al proprio fratello per un amore incondizionato che chiama. Resiste
e fa altro da quello che la legge di Creonte le impone. Sarà proprio
la ferita, quando è nominata, che rinvia al mondo, che non si
nasconde né si interiorizza, divenendo luogo di un’affermazione
innocente. Da qui ha inizio la relazione, inizia la conversazione con
l’altra al riparo dal già dato - né nelle perdite
rovinose e simbiotiche, né nelle barriere delle costruzioni -
(p. 166), come un riavvicinamento da cui si ottiene un segno indelebile
dell’incarnazione: la bellezza e l’indelebile della bellezza è un
fulgore. L’altra, che compare nella relazione, è la bellezza
con voce per chiamare, è l’accadere che scorre, va incontro
a due, a più di due e se ne sa qualcosa solo quando accade.
La Putino in questo libro ha scritto chiaramente che per muoversi nella
e dalla sventura è necessario fare un atto di libertà,
indicare lo scarto non la decisione. La Grazia sposta lo sguardo verso
chi è attento a non far male e sposta la conversazione sull’amore,
sulla verità, sulla giustizia. La bellezza fa passare solo la
capacità di farsi sentire, muove da un vuoto e con un niente
ti folgora.
Per
sopportare il dolore della ferita si è creduto
di sfuggire al naufragio della sventura aggrappandosi alla massa, al
fusionale, ma solo quando si sa della propria ferita si accetta la
de-creazione. È l’amore ad aprire il passaggio all’infinito,
da una singolarità
messa fuori gioco che si incontra col desiderio. La forza si stabilisce
all’interno (per non sentire dolore); mentre l’amore è il
movimento opposto, il vuoto de-crea. In questo senso l’amore
diventa una proposta politica, perché sospende gli effetti della
forza producendo l’evento non previsto. Si ha un’autentica
apertura all’altro/a, uno spazio di relazione/relazioni che aprono
all’in-comune con l’altro/a (la/lo straniera/o), ma questo
in-comune è
l’inappropriabile, è ciò che tocca nell’intimo
e apre all’infinito.
La
filosofa napoletana riesce a dar senso all’idea contraddittoria dell’insegnare l’ininsegnabile,
ne fa esperienza diretta e prova ad affermarla, riesce contemporaneamente
a dare assenso a chi si cimenta con lei, con il proprio desiderio di
affermazione relazionale (la ricerca con un tu). L’infinito del
desiderio, che si pone fuori dall’idolatria della violenza e
del potere, è nell’attesa che qualcosa venga e folgori,
questa è la dimensione reale del pensiero di Angela Putino.
Ha fatto esperienza, ha fatto resistenza alla logica disincarnata,
vivendo una passione di dirsi che coincide con il reale, che attraversa
la relazione con l’altra. Questa è stata la relazione
con Lucia Mastrodomenico, in due e con altre hanno desiderato tenere
aperta una finestra sul pensare, pensare a ciò che accade oggi.
Per
tale motivo, ultimo loro desiderio, è stato
quello di dar vita a una rivista (www.adateoriafemminista.it), che
cerca di precisare punti di avvistamento nelle teorie femministe. Quando
parlavano di teoria riuscivano ad avere una concreta conoscenza di
quanto può
un pensiero libero; attraverso un punto di azzardo si lasciavano trasportare
per superare gli ostacoli e, a partire dalla loro esperienza, potevano
intendere la realtà ed aver presa su di essa con semplici punti
di teoria autonomi e originali.
Oggi
entrambe sono scomparse, ma sono riuscite ad espandere il loro desiderio
di insegnare l’ininsegnabile spostando
sguardi, scoprendo altri punti di avvistamento. Nell’esplicitazione
dei passaggi teorici hanno proposto una pratica, quella della trasparenza,
che
è stata sempre strettamente collegata al loro considerare il
collettivo come un luogo per avviare un pensiero. Le illuminazioni
possono esserci, ma si articolano sempre con un tu, con un collettivo,
proprio perché hanno desiderato nel reale “insegnare l’ininsegnabile”,
dar vita a un pensiero incarnato che si afferma attraverso una condizione
collettiva. Chi ha avuto il privilegio di frequentare Angela e Lucia,
ha potuto e può sempre godere della loro relazione, ha potuto
e può vedere quell’accadere che scorre, quella bellezza
che ha sempre un filo di voce per chiamare.
Quello
che ha scritto la Putino, nel suo ultimo libro sul pensiero della
Weil, sembra accostarsi per esperienza al proprio vissuto: il pensiero
comune dei pensanti che pensano separatamente, l’affacciarsi delle singolarità sull’in-comune. È qui
che traspare quella comunità amorosa
che non si dà
solo nell’incontro di un desiderio con un altro desiderio, ma
anche in quell’incontro capace di sospenderlo. Vivendo oggi il
lutto per Angela e per Lucia, la perdita di queste due donne straordinarie,
proviamo lo sgomento dell’attesa, viviamo la separazione entro
cui siamo e sentiamo ancor più
fortemente chi annuncia continuamente la partenza. La Putino in una
chiarificazione che insegna a pensare, si appoggia su un niente, porge
un vuoto, una via di fuga; nell’andirivieni infinito di nascita
e rinascita, di arrivi e di partenze, spinge verso estreme conseguenze
e conduce a quel rovesciamento in cui l’impossibile appare. La
lasciamo per davvero fuori dal conto, ma non da sola. Nella relazione
con Lucia, in quella loro singola e irriducibile estraneità,
si sono fatte a noi più vicine, un po’ più intime
anche se più separate, per darci quel granello di possibilità in
cui l’esperienza del pensare ridiventa, anche e soprattutto per
una donna, non solo una possibilità tra le altre, ma una possibilità di
libertà aperta e infinita a partire da questo “impossibile”.
Collegamento esterno: Diotima
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Angela Putino
Simone Weil. Un'intima estraneità
Troina, Citta
aperta, [2006]
(Saggi, 37)
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Biblioteca Nazionale di Napoli (novembre
2007)
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