Amedeo
Quondam,
Cavallo e cavaliere. L’armatura come seconda
pelle del gentiluomo moderno.
Roma, Donzelli, 2004
Le
armature, ammettiamolo pure, spesso ci procurano un certo disagio,
stentiamo a percepire il senso o addirittura avvertire il fascino
di queste strane anticaglie un po’ patetiche, un po’ ridicole.
Imbattersi
in queste curiose testimonianze del passato continua a suscitare
reazioni istintive, non sempre perfettamente consapevoli, tra il
fastidio e l’istintiva
ripugnanza. È difficile per noi, moderni eredi della “civilizzazione”,
non provare un’istintiva ripulsa di fronte all’ostentazione
di strumenti di offesa e di morte, isolati dal contesto che li ha
prodotti e giustificati.
Avrà senz’altro
vissuto all’inizio la stessa condizione mentale, sospesa tra
estraneità e ripugnanza, il grande italianista che in una
fredda giornata autunnale, ai margini di un convegno sulla metamorfosi
nella cultura letteraria italiana, incontra, aggirandosi nella Rüstkammer
di Dresda, la preziosa armatura confezionata da Eliseus Libaerts
per Erik XIV re di Svezia e la sua cavalcatura, mai giunta a destinazione,
mai indossata dal suo committente.
Eppure
il profano, com’egli stesso si dichiara, Amedeo Quondam raccoglie
subito la sfida che il prezioso manufatto gli lancia, sollecitando
l’acuta
sensibilità maturata nelle ricerche condotte sul classicismo,
su cerimoniali e abbigliamenti che attestano l’importanza della
decodificazione dell’esteriorità in un’epoca all’apice
della sua raffinatezza.
Cavallo
e cavaliere nasce
da qui, dall’intuizione che, in un cimelio in cui si addensano
prodigi di tecnica e virtuosismo artigianale, è racchiusa
una metamorfosi: “il cavaliere di Dresda e il suo cavallo non
sono più una macchina da guerra. Sono una poderosa macchina
rappresentativa, un multiplo figurativo che intende comunicare senso
a chi ne osserva lo splendore”.
C’è un
momento dunque, una fase storica ma anche culturale, in cui le armature,
da puri e semplici strumenti di guerra, si trasformano in rappresentazioni
di un’identità che si vuole ostentare e trasmettere
all’esterno. L’evoluzione delle tecniche militari in
buona parte facilita questa transizione, insieme con il peso sempre
maggiore dei rituali pubblici e privati. Anche nelle armature, tutto
considerato, ci dimostra Quondam, si può leggere la costituzione
della modernità in quanto nuova forma del vivere del gentiluomo,
e nell’affermazione dei modelli classicisti nell’arte
e nella vita il riscatto destinato a durare a lungo di un’Italia
militarmente sconfitta, che riesce comunque ad imporre alle corti
di tutta Europa i dettami culturali artistici ed etici degli umanisti.
A
cavallo tra XV e XVI secolo, il nuovo clima si afferma irresistibilmente,
penetrando anche attraverso le fitte cortine nebbiose che avvolgono
un regno periferico, immerso ancora in parte nel medioevo.
Erik
XIV, il committente dell’armatura, investe in un’impresa
megalomane – un
progetto di matrimonio alquanto velleitario con la regina Elisabetta
I d’Inghilterra - tutta l’accesa nevrotica fantasia
di un sovrano frustrato per la marginalità alla quale si sente
condannato nei confronti delle grandi corti reali e principesche
e determinato ad innalzarsi al livello che gli detta la formazione
culturale impartita.
Una
vita intensa e sfortunata la sua, attraversata da echi shakespeariani,
tanto da ispirare nel 1899 a
August Strindberg un dramma storico
che reca come titolo il suo nome. Asceso al trono dopo la morte del
padre Gustaf I il 29 settembre 1560, Erik prosegue e
accentua la politica di apertura agli influssi europei, anche e soprattutto
dal punto di vista culturale, inaugurando un breve regno, destinato
a chiudersi nel 1569 con la destituzione decretata per evidenti manifestazioni
di follia dal parlamento svedese, seguita dall’avvelenamento
nella prigione in cui era recluso dal 1568.
Prima
di sposare una borghese sedicenne, nel 1567, Erik XIV aveva ordinato
ben tre armature al grande artigiano di Anversa Eliseus Libaerts,
con l’obiettivo
di farne un dono prestigioso ad Elisabetta I d’Inghilterra.
Ma una strana fatalità sembra aleggiare su tutta questa vicenda:
il matrimonio non si fece, e le armature non arrivarono mai a destinazione,
perché, a partire dal 1563, si accese la guerra destinata
a durare sette anni con la Danimarca. Neanche Libaerts sarebbe riuscito
a “piazzare” i suoi capolavori, nonostante si facesse
scortare in un viaggio sfortunato a Londra da una lettera di presentazione
del banchiere italiano Baronchelli.
I
primi ad acquisire le armature saranno i principi di Sassonia, che
se le trasmetteranno di generazione in generazione, come occasione
celebrativa dei fasti di un casato, affidando alle splendide decorazioni
erculee il compito di rappresentare “le loro nuove virtù che
riconnotano strategicamente l’esercizio ordinario del mestiere
delle armi e le pratiche di governo, cioè la competenza attiva
delle arti e delle lettere, a imitazione degli Antichi, la magnificenza
liberale, la politezza, la grazia, e quindi il lessico primario delle
favole antiche di dei e eroi, i suoi simili, i suoi antenati”.
Le
imprese di Ercole, ma non solo quelle – sono riprodotte anche
le vicende della guerra di Troia e le gesta di Giasone – ricoprono,
come si diceva, l’intera armatura, descritta minuziosamente
con l’apporto
di un abbondante corredo fotografico. Quondam, da vero dilettante
entusiasta, si impegna attivamente a recuperare il tempo perduto,
rintraccia le radici del programma iconografico di Libaerts, ricorrendo
ad autorevoli repertori come The Illustrated Bartsch, in particolare
la serie The New Hollstein, nel ciclo di incisioni di Cornelis
Cort sullo stesso tema, realizzate pochi anni prima sempre in quel
grande crogiuolo artistico e culturale che è l’Anversa
del XVI secolo. La contaminazione del tema di Ercole con quello
della guerra di Troia appartiene, ci viene ricordato, ad una ricca
tradizione letteraria all’interno della quale figurano il Recueil
des histoires de Troyes e le Histoires de Jason di Raoul
Le Fèvre del 1464 e del 1460, Le fatiche di Hercule di
Pier Andrea de’ Bassi (1475). Ma gli antichi miti subiscono
un’ulteriore rielaborazione, attraverso il filtro sapiente
delle opere degli umanisti, per ricomparire nel lavoro di Libaerts
come metamorfosi del cavaliere. E qui lo studioso torna a giocare
sul suo terreno, ad esempio quello delle ricerche sul Libro del
cortegiano di Baldassarre Castiglione, e ripropone con mirabile
acume filologico in qualità di textes à l’appui il
trattatello De equo animante di Leon Battista Alberti del
1443 – una cavalcata, è il caso di dire tra le tecniche
dell’addestramento, gli impieghi civili del nobile animale,
non trascurando la veterinaria - che fa entrare “il cavallo
nel sistema dell’arte e della virtù”, ma soprattutto,
vera e propria chicca, “un librone di mille pagine”, La
gloria del cavallo di Pasquale Caracciolo del 1566, bestseller
cinquecentesco che condensa in illuminanti formulazioni come quella
che segue le virtù e le competenze richieste al cavaliere
gentiluomo: “le lettere sono quelle che fanno l’uomo
più prudente e temperato nelle sue azioni, più animoso
e costante nei pericoli, più istrutto negli ordini della guerra,
più risoluto nei repentini accidenti, più giusto nel
governare, più esperto nel difendere o nell’espugnare
della città, e insomma più avveduto in tutti gli affari.
Però Socrate dicea non dover essere il soldato terribile solamente
e coraggioso, ma etiandio sì abile e acuto d’ingegno,
che possa apprendere le dottrine e pazientissimo a proseguire compiutamente
il faticoso studio delle lettere”.
Illustrazioni:
1) La copertina del volume
2-4) Immagini tratte dal sito della Rüstkammer di
Dresda http://www.dresden-reisefuehrer.de/museen/ruestk_1.htm