Everyman potrebbe essere inteso in italiano con il termine “chiunque” sottendendo
un destino comune, una sorte analoga, e di fatti questo potente romanzo
prende il titolo da un'anonima rappresentazione allegorica quattrocentesca,
un classico della prima drammaturgia inglese, che ha per tema la
chiamata di tutti i viventi alla morte, con la differenza che qui
non vi è un Dio che giudica e l’unico giudizio che resta è quello
degli uomini.
Ma
quest'ultima fatica di Roth ci sembra, più che sulla morte,
una riflessione sulla vita. Non è quindi un “memento
mori” ma un'osservazione disincantata e lucida dell'esistenza
fatta nel suo momento finale. Punto di vista privilegiato, poiché distante
dai clamori, dagli errori, dalle passioni, dagli amori che costituiscono
la trama della vita. E’ nel silenzio della morte che si ricompone
il puzzle della vita del protagonista, il cui nome non ci viene rivelato
ma
è chiaramente un alter ego dello scrittore, dall'infanzia in un incantato
New Jersey, luogo ove Roth è solito ambientare i suoi romanzi, al momento
della fine. Il linguaggio è secco e preciso, adoperato come un bisturi,
e non concede nulla a falsi sentimenti o moralismi, anche quando si tratta
di descrivere le pulsioni sessuali o la fatale decadenza del corpo offeso da
malanni, malattie ed operazioni chirurgiche. Il libro si apre con un funerale,
quello del protagonista. Assistiamo quindi ad un vero e proprio ribaltamento
di canone letterario, in quanto si seppellisce colui che per il resto del libro è l'io
narrante, in terza persona, e quindi vivente. Gli elogi funebri dei parenti,
degli amici, dettati dall'emozione del momento e dalla nostalgia del distacco,
distorcono l'essenza reale della vita di colui che è morto. Essenza
che invece ci viene rappresentata attraverso il racconto del protagonista che
misura la propria inadeguatezza, il proprio “mal de vivre”, di
fronte alle cose della vita. Tre matrimoni falliti, due figli maschi pieni
di rancore per l'abbandono subito. Una sola consolazione, dal punto di vista
affettivo, la figlia Nancy, che, a causa delle cattive condizioni economiche
e familiari, finisce col divenire ulteriore motivo di preoccupazione e di affanno.
La progressiva perdita di salute fisica allontana da quella pienezza dell'essere
che può permeare di senso positivo la visione della vita e lascia il
posto ad un disincanto che mette in dubbio persino la propria umanità, «Mio
Dio - pensava - che uomo ero una volta! Che vita avevo intorno! Che forza avevo
dentro! Nessuna alterità da avvertire! Una volta ero completo: ero un
essere umano». C'è
l'opportunità di modificare questa realtà? Riuscire a
cambiarla? Anche in questo caso il giudizio è impietoso: «E'
impossibile rifare la realtà – gli disse –
devi prendere le cose come vengono. Tenere duro e prendere le cose
come vengono». Resterebbero
i rapporti umani, ma è proprio su questo fronte che si consuma
anche l'ultima illusione, il fallimento di un'esistenza in cui l'inganno,
la menzogna, portano alla disgregazione dei sentimenti e non resta
che affrontare da soli la vecchiaia e la solitudine.
Non
c'è per il protagonista possibilità di riscatto finale,
come accade invece all'Ivan Illich di Tolstoj, attraverso la fede,
da lui mai sentita e vissuta, piuttosto, come una delle eredità ricevute
dai genitori, da quei genitori sepolti nel vecchio e cadente cimitero
ebraico, meta del suo ultimo viaggio. La
loro assenza nel momento in cui si avverte che la vita sta per finire
genera un'acuta nostalgia: «Non era mai stato difficile capire
i suoi genitori. Erano una madre ed un padre. Non avevano molti altri
desideri. Ma lo spazio occupato dai loro corpi adesso era vuoto.
La concretezza della loro vita non esisteva più». Ed
è proprio la concretezza della vita, con il suo ciclo di operazioni
materiali da compiere nel migliore dei modi, al centro del colloquio finale
con lo sterratore del cimitero. L'enumerazione meticolosa delle operazioni
occorrenti ad una buona sepoltura trasmettono serenità e sembrano spogliare
la morte del suo senso di mistero.
Non
è altro, in definitiva, che uno dei tanti fatti della vita, l'ultimo, da
affrontare e compiere nel migliore dei modi: dopo c'è il nulla.