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Giacomo Leopardi e la stagione di Silvia
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Marcello
Andria
Giacomo
Leopardi e la stagione di Silvia
Testo dell’intervento tenuto il 5 maggio 2003 presso
la Biblioteca Nazionale di Napoli
in occasione della presentazione
di Giacomo Leopardi e la stagione
di Silvia, a cura di Fiorenza
Ceragioli (Roma, Sossella, 2001),
un cd rom e un libro che ripercorrono
le vicende leopardiane durante
il soggiorno pisano.
L’autore, già bibliotecario della Biblioteca Nazionale
di Napoli - dove ha condotto
numerosi studi e ricerche sulle
carte leopardiane - è attualmente
direttore del Centro di Servizio
di Ateneo per le Biblioteche
(Università degli studi di
Salerno)
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Il
CD-Rom e l’agile volumetto curato, per i tipi di Luca Sossella,
da Fiorenza Ceragioli prendono indubbiamente
spunto dalla mostra dal titolo “Leopardi a Pisa. ... cangiato
il mondo appar...”, che nel dicembre del 1997 ebbe il compito
di aprire le celebrazioni per il bicentenario leopardiano in
Italia e all’estero. In quell’occasione essenziale fu il contributo
di questa biblioteca, che per la prima volta concesse in prestito
alcuni preziosi autografi del recanatese databili al periodo
pisano: Il risorgimento e A Silvia, in primo luogo,
ma anche lo Scherzo, Il canto della fanciulla,
appunti per la Crestomazia poetica, lettere di corrispondenti
pisani, diplomi e perfino il passaporto attestante i numerosi
spostamenti del poeta nella seconda metà degli anni Venti.
Credo
di poter dire, senza tema di smentite, che mai una esposizione
su un autore della nostra letteratura sia stata in grado di porgere
con tanta ricchezza e accuratezza di documentazione e, insieme,
con tanta eleganza nell’allestimento la ricostruzione di un luogo
e di un’epoca, della temperie culturale e della vita sociale
che li caratterizzarono.
Attraversando
le magnifiche sale del Palazzo Lanfranchi sul lungarno – che
Leopardi peraltro frequentò durante il soggiorno pisano – l’addetto
ai lavori come il visitatore comune ebbero modo di immergersi
con pienezza di sensazioni nella città e nell’ambiente che nel
novembre del 1827 accolsero il poeta proveniente da Firenze.
La vedutistica coeva – in particolare i raffinati scorci a matita
di M.lle de La Morinière – ben restituivano lo spessore di città monumentale
e cosmopolita, mèta obbligata per i viaggiatori del Grand
Tour, che Pisa era stata ed era ancora nel 1828. La meticolosa
ricostruzione degli interni, dei salotti e degli ambienti familiari
e di studio – questi ultimi immaginati sulla scorta dei dipinti
del Kersting –, i ritratti dei protagonisti della vita culturale
incontrati e frequentati da Leopardi, infine gli arredi e gli
oggetti d’arte contribuivano, nello splendido allestimento di
Ferruccio Montanari, a creare una cornice di vivida suggestione,
in cui inquadrare il soggiorno di Leopardi e la sua attività in
quei ‘cruciali’ sette mesi.
Quando
giunge a Pisa il recanatese è reduce da una fase di intenso impegno
pubblicistico, che ha messo a dura prova la sua resistenza fisica
e, in particolare, la sua vista già debole: sono appena approdati
alle stampe il commento al Canzoniere petrarchesco e la
Crestomazia della prosa; mentre si sono arenati, per difficoltà editoriali,
i lungamente lavorati Moralisti greci e, per scarsa convinzione
dello stesso curatore, l’edizione bilingue di Cicerone e il compendio
del Cinonio. Fra l’estate e l’autunno del ’27, peraltro, giunge
a compimento una massacrante revisione dello Zibaldone (che
già conta allora circa 4.200 pagine): in quel frangente l’immenso
manoscritto è sottoposto a un dettagliatissimo, minuto lavoro
di indicizzazione, che lascia traccia di sé in centinaia di piccole
schede zeppe di riferimenti numerici.
Ma,
soprattutto, al termine di un lungo e tortuoso percorso, dai
torchi dello Stella è appena uscita la prima edizione delle Operette
morali.
E
il caso ha voluto che “quel libro senza uguali” (l’espressione è di
Italo Calvino) sia stato pubblicato nella
stessa città – Milano – e quasi in contemporanea con il romanzo
manzoniano, destinato ad avere tutt’altra eco. Riferisce il Sainte-Beuve
che sulle Operette l’autore dei Promessi sposi avrebbe
commentato con il de Sinner: “Avete letto i saggi di prosa di
Leopardi? Non si è fatta abbastanza attenzione a questo piccolo
volume; come stile, non s’è forse scritto nulla di meglio nella
prosa italiana de’ nostri giorni”. Lapidario, al contrario, il
tono con cui il poeta, che in quel periodo è a Firenze, interviene
in margine al gran dibattito sollevato dall’uscita dei Promessi
sposi:
Qui
si aspetta il Manzoni a momenti. Hai veduto il suo romanzo, che
fa tanto romore, e val tanto poco?
scrive
al Brighenti nell’agosto del ’27. Ma più tardi, in una
lettera al Papadopoli, correggerà decisamente il tiro:
Ho
veduto il romanzo del Manzoni, il quale, non ostante molti difetti,
mi
piace assai, ed è certamente opera di grande ingegno.
Si
conosceranno, Leopardi e Manzoni, nel circolo fiorentino
che ruota intorno a Giovan Pietro Vieusseux,
nel quale il recanatese ha modo di coltivare relazioni
con gli intellettuali fiorentini, con gli esuli che dalle
altre
regioni
d’Italia si sono rifugiati nella capitale del
Granducato (e, fra questi, lo stesso Antonio Ranieri),
con alcune personalità di
spicco provenienti da altri paesi europei: un ambiente “aperto
alla contemporaneità”, scrive Fiorenza Ceragioli, “frequentato
da molti coetanei, cioè da giovani”, di cui tuttavia Leopardi
non riuscì mai a condividere gli orientamenti ideologici né i
programmi pratici.
Indotto
dagli amici toscani a cercarsi un luogo dal clima
più temperato
dove trascorrere l’inverno, dunque, provato nel fisico dalle
dure, spesso ingrate, fatiche erudite e, forse, un po’ a
disagio nell’ambiente di ottimistica fiducia liberal-progressista
che
caratterizzava le riunioni del Gabinetto Scientifico-letterario
di Palazzo Buondelmonti, il 9 novembre del 1827 Leopardi
giunge a Pisa: qui Gaetano Cioni, docente di fisica e linguista,
ha
già provveduto a trovargli un alloggio comodo e conveniente
in via della Faggiola, a due passi da Piazza dei Miracoli,
presso
la famiglia Soderini, che gli riserverà una piacevole,
familiare accoglienza.
A
un passo epistolare insolito per i toni di entusiasmo,
quasi di sorpresa, che lo contraddistinguono, è affidato, a tre giorni
dall’arrivo, il commento del primo contatto con la città; la
destinataria è la confidente di sempre, la sorella Paolina:
L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze.
Questo lung’Arno è uno spettacolo così bello, così ampio,
così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora: non
ho veduto niente di simile né a Firenze né a Milano né a Roma;
e veramente non so se in tutta l’Europa si trovino molte vedute
di questa sorta. Vi si passeggia poi nell’inverno con gran
piacere, perché v’è quasi sempre un’aria di primavera: sicché in
certe ore del giorno quella contrada è piena di mondo, piena
di carrozze e di pedoni: vi si sentono parlare dieci o venti
lingue, vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè,
delle botteghe piene di galanterie, e nelle invetriate dei
palazzi e delle case, tutte di bella architettura. Nel resto
poi, Pisa è un misto di città grande e di città piccola, di
cittadino e di villereccio, un misto così romantico, che non
ho mai veduto altrettanto.
Bello, ampio, magnifico, gaio, ridente, che
innamora; e, più avanti, incanto, beatitudine:
un incalzare di apprezzamenti che sembrano tradurre in immagini
la sensazione di ritrovato benessere.
Il
significato di quel romantico, poi, sarà chiarito più tardi
in un passo zibaldoniano:
... un luogo ci riesce romantico o sentimentale, non
per sé, che non ha nulla di ciò, ma perché ci desta la memoria
di un altro luogo da noi conosciuto... (Zib., p. 4471).
Il
quotidiano contatto con un ambiente esterno inondato di aria
e di luce lo riporta come d’incanto all’età della giovinezza,
all’antica sensibilità che vide nascere la poesia; inaugura,
in una parola, una nuova stagione del cuore. Scrive nel
febbraio del 1828 a Paolina:
Io sogno sempre di voi altri, dormendo e vegliando:
ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via
delle rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare
a occhi aperti. Vi assicuro che in materia d’immaginazioni,
mi pare d’essere tornato al mio buon tempo antico.
Il
brano epistolare richiama da vicino un celebre passo zibaldoniano,
che voglio qui ricordare:
Cangiando spesse volte il luogo della mia dimora, e
fermandomi dove più dove meno o mesi o anni, m’avvidi che io
non mi trovava mai contento, mai nel mio centro, mai naturalizzato
in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantocché io
non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo,
alle stanze dove io dimorava, alle vie, alle case che io frequentava
[...] Colla rimembranza egli mi diveniva quasi il luogo natìo
(Zib., 23 luglio 1827).
Si
riannodano, dunque, a Pisa i dispersi fili di quello che Fiorenza
Ceragioli felicemente definisce “il percorso segreto della poesia”.
All’indomani della stesura dei due canti pisani, Il risorgimento e A
Silvia, Giacomo scriverà infatti a Paolina:
... dopo due anni, ho fatto dei versi quest’Aprile;
ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta.
Rimane,
dunque, indubbio che il breve, ma intenso e sereno periodo pisano
costituisca un unicum nel travagliato percorso biografico
e sentimentale del poeta, appunto per gli intimi legami emotivi
e affettivi che egli vi rintraccia con i luoghi e i tempi della
giovinezza. Nel gennaio successivo preciserà ancora nello Zibaldone,
sotto la rubrica Memorie della mia vita:
La privazione di ogni speranza, succeduta al mio primo
ingresso nel mondo, appoco appoco fu causa di spegnere in me
quasi ogni desiderio. Ora, per le circostanze mutate, risorta
la speranza, io mi trovo nella strana situazione di aver molta
più speranza che desiderio ... .
Ma
qual è l’ambiente che accoglie Leopardi sul finire del 1827?
A
fare gli onori di casa è il rappresentante ufficiale della cultura
pisana, l’editore e docente di eloquenza Giovanni Rosini, che,
nella sua bella dimora di piazza del Duomo, ai piedi della Torre,
riunisce intellettuali ed artisti, italiani e stranieri, con
prodigale ospitalità: uomo cordiale, di intemperante energia,
che guiderà il timido Leopardi fra i brillanti salotti cittadini,
amando e apprezzando con sincero trasporto il suo genio. Gli
sottoporrà quasi quotidianamente – come i documenti epistolari
conservati qui a Napoli attestano – le pagine della sua Monaca
di Monza, opera che ambiva a dare séguito alla vicenda del
romanzo manzoniano: una revisione ingrata, a cui il poeta mitemente
si piegherà per pura cortesia, commentando poi in una lettera
al padre:
Qui si pubblicherà fra non molto una specie di continuazione
di quel romanzo, la quale passa tutta per le mie mani. Sarà una
cosa che varrà poco; e mi dispiace il dirlo, perché l’autore è mio
amico, e ha voluto confidare a me solo questo secreto, e mi
costringe a riveder la sua opera, pagina per pagina: ma io
non so che ci fare.
Nel
contendersi la presenza del poeta non saranno da meno le più prestigiose
dame pisane: da Lauretta Cipriani Parra, compagna e poi moglie
di Giuseppe Montanelli, che sostenne con passione la causa greca
– donna indipendente e sensibile, che forse avrebbe amato stringere
con Leopardi un rapporto di amicizia che travalicasse i formalismi
della conversazione salottiera – alla francese Sofia Caudeiron,
vedova Vaccà Berlinghieri, la “bella Sofia”, che proprio nel
Palazzo Lanfranchi tenne un importante salotto di ispirazione
liberale, dove furono ospiti Gino Capponi e Pietro Giordani,
Giovan Pietro Vieusseux e Francesco Domenico Guerrazzi. Più sporadici
furono gli inviti agli sfarzosi ricevimenti dei Mastiani Brunacci,
la più facoltosa e potente famiglia pisana, nei quali brillava
l’affascinante e chiacchieratissima contessa Elena, dama di corte
di Elisa Baciocchi a Lucca e, poi, dei Lorena a Firenze. Un ritrovo
mondano, quest’ultimo, fra i più ambiti dell’Italia dell’epoca,
nel quale passarono madame de Staël e la duchessa di Berry, Paolina
Bonaparte, Vittorio Alfieri e gli stessi Granduchi di Toscana.
Un
accenno dello Zibaldone attesta poi la partecipazione
di Leopardi a qualche seduta dell’Accademia dei Lunatici, singolare
associazione fondata dalla londinese Margaret Jane King, contessa
di Mountcashell, meglio nota con lo pseudonimo di Madame Mason:
carismatica quanto misconosciuta figura di pedagogista e di protofemminista,
che dalla sua istitutrice – Mary Wollstonecraft, madre di Mary
Shelley e autrice del trattato A Vindication of Rights of
Women (1792) – aveva attinto avanzati princìpi di educazione
dei giovani al libero pensiero. La nobildonna fu, peraltro, autrice
di libri per l’infanzia, oltre che di un fortunato manuale di
puericultura. Senza dubbio, quello con la Mason, uno fra gli
incontri pisani che, per la peculiarità del personaggio, desta
maggiore interesse e curiosità. Anche dopo la partenza da Pisa,
Leopardi la ricorderà spesso nelle lettere a Rosini.
All’intrattenimento
piacevole dei salotti si alternò la frequentazione degli ambienti
accademici, anch’essa piuttosto inconsueta nella vicenda leopardiana.
Poco noto è l’episodio, raccontato molti anni dopo da Girolamo
Cioni, della presenza all’inaugurazione del corso di diritto
penale tenuto da Giovanni Carmignani:
La
Scuola Magna è piena zeppa, il professore ascende
la cattedra. Non discorre subito, ma si rivolge a un
usciere o bidello e richiede che nell’emiciclo sotto la cattedra
sien
disposte due sedie. Il bidello le dispone, e allora il
Carmignani presenta alla scolaresca Giacomo Leopardi con parole
degne
di questo e di chi le proferiva, e lo invita ad assidersi
in luogo distinto insieme con chi lo accompagnava. Le parole
del
venerato Maestro furono seguite da una tempesta di applausi.
Al
di là del puro valore biografico, l’episodio è significativo
del clima di entusiasmo e di calda accoglienza che dové circondare
Leopardi durante il soggiorno pisano: una assidua presenza pubblica,
quella del poeta, con qualche tocco di mondanità, che in parte
contrasta con l’immagine irrimediabilmente isolata, di déraciné,
che domina la sua vicenda esistenziale come il suo percorso intellettuale.
Un
corto ma cruciale intervallo, dunque, in cui il migliorato
stato di salute e una maggiore disponibilità alle relazioni umane concorsero
alla rinascita di quella ‘vita del cuore’, che dischiuderà le
porte alla nuova poesia del mirabile ciclo poetico pisano-recanatese: Il
risorgimento e A Silvia; poi, fra il 1829 e il ’30, Le
ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato
del villaggio, Il canto notturno di un pastore errante.
Un
evento doloroso, peraltro nascosto ad amici e frequentatori con
rigoroso riserbo, sembra bruscamente troncare il legame con la
città della Torre. Nel maggio del ’28 giunge da casa la notizia
della morte del ventiquattrenne fratello Luigi:
Io
non ho preso insegne di lutto – scrive al padre – per evitare
le innumerabili questioni che esse mi avrebbero
procurate; le quali venendomi da persone indifferenti,
sarebbero state insopportabili al mio dolore: tanto più che il mio carattere è di
chiudere nel profondo di me stesso tutti gli affanni e le affezioni
vere.
Fra un paio di settimane, a Dio piacendo, conto d’essere
a Firenze; dove mi tratterrò forse non molto, ma passerò a
Siena, per andare di là a Perugia, e così lentamente, secondo
la mia possibilità, avvicinarmi a casa.
La
perdita del giovane Luigi sembra richiamarlo inesorabilmente
ai suoi doveri di figlio e di fratello e lo riavvicina emotivamente
al nucleo familiare. Muta, rileva Fiorenza Ceragioli, nel mutare
dei sentimenti, anche il consueto modo di rivolgersi al padre:
dal distante e rispettoso “Mio carissimo signor Padre” ai più teneri
“Mio caro Papà” o “Caro Papà mio”.
La
partenza da Pisa è repentina e senza preavviso, quasi
una fuga: ai primi di giugno Leopardi ritorna a Firenze.
Di
tutto questo, e di molto altro ancora, rendono conto il volumetto
e il cd-rom allestiti da Fiorenza Ceragioli.
Nella sua duttilità il supporto elettronico, corredato di oltre
mille link, consente, in aggiunta, di seguire più percorsi interattivi,
commentati da letture di brani dello Zibaldone, dell’Epistolario e
delle liriche, affidate alla voce di Milena Vukotić e Carlo
Mega.
Non
una struttura rigida, dunque, come si spiega nel
dépliant illustrativo,
ma “un approccio multimediale essenziale incentrato sull’espressività,
anche visiva”, di agevole fruizione anche per chi non abbia particolare
familiarità con il mezzo elettronico: un percorso
guidato automatico di ben quarantacinque minuti,
infatti, – attraverso un fil
rouge costruito sulla lettura dell’Epistolario e dello Zibaldone –
riepiloga motivi e personaggi salienti in una video-narrazione
lineare, accompagnata da un ricco corredo iconografico.
Chi voglia, invece, seguire specifici itinerari di
ricerca può dalla pagina
iniziale o dall’indice orientare il suo interesse
verso temi circoscritti – gli affetti e la salute, l’opera e i
rapporti culturali, i luoghi e le persone – e da qui zoomare su
aspetti, episodi, figure, perfino curiosità a vario titolo menzionati.
In
definitiva si può ben dire che ci troviamo di fronte a un accuratissimo
strumento di ricerca, attraverso il quale studiosi e appassionati
possono focalizzare l’attenzione su una fase nodale del percorso
leopardiano; e, nello stesso tempo a un utile sussidio didattico,
in grado di fornire a studenti e docenti una visione multiprospettica,
che arricchisce la riflessione su versi fra i più noti
e amati della nostra letteratura di uno sfondo estremamente
significativo
di immagini e stati emotivi, su cui nitide si stagliano
le ragioni della poesia.
Maggio
2003 - © Biblioteca
Nazionale di Napoli
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