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Fondo librario "Soggettività femminile"
Teca delle nuove accessioni 2007

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Amélie Nothomb, Biografia della fame, Roma, Voland, 2004

Belga, nata a Kobe (Giappone) nel 1967,
Amélie Nothomb, con i suoi libri ha ormai conquistato milioni di lettori, fans appassionati. L’esordio a ventitré anni con Igiene dell’assassino, cui ha fatto seguito, ogni anno, un romanzo accolto con identico successo. Moltissimi i premi ricevuti, fra i più importanti il Gran Premio dell’Académie Française (nel 1999) per Stupore e tremori, da cui è stato tratto anche un film.
“Se scendevo appena all’interno di me, mi imbattevo in territori di un’aridità stupefacente, sponde che attendevano la piena del Nilo da millenni.”
“Sarebbe il caso che questa evidente verità venisse infine acquisita: l’ascesi non arricchisce la mente. Le privazioni non costituiscono una virtù.”
“La fame sono io.”


Una divorante fame di vita per un’autentica, singolare, eccentrica autobiografia.
Gli anni del nomadismo familiare in paesi esotici, al seguito del padre diplomatico: Giappone, Cina, Bangladesh … il tutto raccontato con una lingua che ha raggiunto la piena maturità. Un libro bellissimo e toccante.

(dalla seconda e quarta di copertina)

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Il sogno dei fisici è arrivare a spiegare l’universo a partire da una sola legge. Sembra sia molto difficile. Se fossi un universo, esisterei grazie a quest’unica forza: la fame.
Non si tratta di aggiudicarsi il monopolio della fame; è la qualità umana più diffusa. Ho tuttavia la pretesa di essere una campionessa in questo campo. Perfino nei miei ricordi più remoti, morivo sempre di fame.
Appartengo a un ambiente agiato: a casa mia non è mai mancato niente. E questo che mi suggerisce di vedere nella mia fame una caratteristica personale: non è spiegabile socialmente.
Va precisato che la mia fame è da intendersi nel senso più ampio: se fosse stata solo fame di alimenti, forse non sarebbe stata così grave. Ma esiste una fame che è solo di cibo? Esiste una fame del ventre che non sia indizio di una fame più generalizzata? Per fame, intendo quel buco spaventoso di tutto l’essere, quel vuoto che attanaglia, quell’aspirazione non tanto all’utopica pienezza quanto alla semplice realtà: là dove non c’è niente, imploro che vi sia qualcosa. […]
La fame è volere. È un desiderio più grande del desiderio. Non è la volontà. che è forza. Non è neanche una debolezza, perché la fame non conosce passività. L’affamato è qualcuno che cerca. Se Catullo cede alla rassegnazione, è proprio perché non è rassegnato. C’è nella fame una dinamica che proibisce di accettare il proprio stato. È un volere che è intollerabile.
Mi direte che il volere di Catullo, che è la mancanza d’amore, l’ossessione dovuta all’assenza dell’amata, non c’entra niente. Eppure il mio linguaggio vi intuisce un registro identico. La fame, quella vera, che non è la frenesia di un capriccio, la fame che strappa il cuore e svuota l’anima della sua sostanza, è la scala che conduce all’amore. I grandi amanti sono stati educati alla scuola della fame. (pp.17-8)

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