Amélie Nothomb, Biografia della
fame, Roma, Voland, 2004
Belga, nata a Kobe (Giappone) nel 1967, Amélie
Nothomb, con i suoi libri ha ormai
conquistato milioni di lettori, fans appassionati. L’esordio
a ventitré anni con Igiene dell’assassino, cui
ha fatto seguito, ogni anno, un romanzo accolto con identico
successo. Moltissimi i premi ricevuti, fra i più importanti
il Gran Premio dell’Académie Française
(nel 1999) per Stupore
e tremori, da cui è stato tratto anche un film.
“Se scendevo appena all’interno di me, mi imbattevo
in territori di un’aridità stupefacente, sponde
che attendevano la piena del Nilo da millenni.”
“Sarebbe il caso che questa evidente verità venisse
infine acquisita: l’ascesi non arricchisce la mente.
Le privazioni non costituiscono una virtù.”
“La fame sono io.”
Una divorante fame di vita per un’autentica, singolare,
eccentrica autobiografia.
Gli anni del nomadismo familiare in paesi esotici, al seguito
del padre diplomatico: Giappone, Cina, Bangladesh … il
tutto raccontato con una lingua che ha raggiunto la piena maturità.
Un libro bellissimo e toccante.
(dalla seconda e quarta di copertina)
Il sogno
dei fisici è arrivare
a spiegare l’universo a partire da una sola legge. Sembra
sia molto difficile. Se fossi un universo, esisterei grazie
a quest’unica forza: la fame.
Non si tratta di aggiudicarsi il monopolio della fame; è la
qualità umana più diffusa. Ho tuttavia la pretesa
di essere una campionessa in questo campo. Perfino nei miei
ricordi più remoti, morivo sempre di fame.
Appartengo a un ambiente agiato: a casa mia non è mai
mancato niente. E questo che mi suggerisce di vedere nella
mia fame una caratteristica personale: non è spiegabile
socialmente.
Va precisato che la mia fame è da intendersi nel senso
più ampio: se fosse stata solo fame di alimenti, forse
non sarebbe stata così grave. Ma esiste una fame che è solo
di cibo? Esiste una fame del ventre che non sia indizio di
una fame più generalizzata? Per fame, intendo quel buco
spaventoso di tutto l’essere, quel vuoto che attanaglia,
quell’aspirazione non tanto all’utopica pienezza
quanto alla semplice realtà: là dove non c’è niente,
imploro che vi sia qualcosa. […]
La fame è volere. È un desiderio più grande
del desiderio. Non è la volontà. che è forza.
Non è neanche una debolezza, perché la fame non
conosce passività. L’affamato è qualcuno
che cerca. Se Catullo cede alla rassegnazione, è proprio
perché non è rassegnato. C’è nella
fame una dinamica che proibisce di accettare il proprio stato. È un
volere che è intollerabile.
Mi direte che il volere di Catullo, che è la mancanza
d’amore, l’ossessione dovuta all’assenza
dell’amata, non c’entra niente. Eppure il mio linguaggio
vi intuisce un registro identico. La fame, quella vera, che
non è la frenesia di un capriccio, la fame che strappa
il cuore e svuota l’anima della sua sostanza, è la
scala che conduce all’amore. I grandi amanti sono stati
educati alla scuola della fame. (pp.17-8)
Collegamenti
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