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Fondo librario "Soggettività femminile"
Teca delle nuove accessioni 2007

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Giuliana Sgrena, Fuoco amico, Milano, Feltrinelli, 2005

Giuliana Sgrena nel rivivere la sua drammatica esperienza ci racconta lucidamente i tanti mutamenti socio-politici avvenuti dopo l’intervento americano in Iraq, dove né gli occupanti né chi combatte l’occupazione vogliono più testimoni.
L’incubo di quattro settimane, prigioniera di mujaheddin che sostengono di combattere contro l’occupazione dell’lraq. La gioia per la liberazione violentemente interrotta dal fuoco delle truppe americane che uccide Nicola Calipari, l’agente che l’ha salvata dai rapitori. Due volte vittima del “fuoco amico”.
Un’esperienza drammatica vissuta in un paese dilaniato dalla guerra e dall’occupazione, dove anche gli ostaggi diventano un’arma di guerra e le vittime civili irachene ormai non si contano più.
I ricordi del rapimento, le sensazioni quotidiane vissute in una stanza chiusa e al buio, gli incubi del sequestro si intrecciano con i temi della realtà irachena (guerra, sequestri, profughi, resistenza, terrorismo, religione, la condizione delle donne, il progressivo processo di libanizzazione del paese ecc.) e con i richiami al passato regime, a Saddam, all’embargo e alla vicenda delle mai rinvenute armi di distruzione di massa.
Una realtà insidiosa che pone il problema di come fare informazione su un terreno di guerra senza essere “embedded” con le varie truppe di occupazione.

Giuliana Sgrena è inviata de “il manifesto” non solo in Iraq, ma in Somalia, Palestina, Afghanistan e Algeria. Collabora anche con RaiNews24, il settimanale tedesco “Die Zeit” e la radio della Svizzera italiana. Tra i libri pubblicati: Kahina contro i califfi, islamismo e democrazia in Algeria (Datanews 1997); Alla scuola dei taleban (manifestolibri 2002); Il fronte Iraq, diario da una guerra permanente (manifestolibri 2004).

(dalla quarta di copertina)

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Il mio sequestro ha avuto un duplice effetto: una frustrazione sul piano professionale e una conferma sul piano politico. Fino alla vigilia della mia ultima partenza per Baghdad, sostenevo che nonostante la pericolosità della situazione, bisognasse correre il rischio per informare sugli effetti devastanti della guerra in Iraq. Io, come altri, quel rischio l’ho corso, ma ho dovuto constatare che in questo momento in Iraq non c’è più la possibilità di lavorare. Di svolgere questo mestiere come lo intendo io: andare sul terreno, rappresentare la quotidianità della guerra e testimoniare delle sofferenze parlando con i protagonisti di quella realtà. Sono andata a intervistare i profughi di Falluja, tra gli iracheni quelli che forse più hanno sofferto sotto l’occupazione, e sono stata rapita. La giornalista francese, Florence Aubenas, è stata rapita esattamente nello stesso posto, un mese prima, ma l’avrei saputo solo dopo. Rapite dopo aver intervistato i profughi, forse persino proprio per averli intervistati, è la dimostrazione che in Iraq - chi ha il potere delle armi – non vuole testimoni. E dover accettare questa imposizione è in qualche modo una sconfitta. Non solo per me, ma anche per coloro che in Iraq hanno bisogno di far sentire la loro voce. […] Evidentemente – e questo è il mio rammarico - non avevo calcolato fino a che punto possa arrivare la degenerazione della guerra, pur avendola sempre denunciata: sono stati i miei rapitori a sbattermi in faccia la dura realtà. […] Il sequestro è stata la riprova che la resistenza armata (o almeno una parte) non è interessata ad avere un rapporto con l’esterno, visto che tratta tutti gli stranieri da nemici senza più fare distinzione […]. Quello che mi è successo dopo la liberazione, la macchina colpita dal “fuoco amico”, mi ha riportata alle origini della precipitazione della situazione in Iraq: la guerra. Con la guerra, la caduta di Saddam non ha portato la libertà ma l’imbarbarimento della Mesopotamia, culla di civiltà con i sumeri, gli assiri e i babilonesi. La realtà è questa...
Per chi ha avuto la pazienza di arrivare alla fine del libro il doppio senso del titolo sarà chiaro.
“Fuoco amico” non sono solo i colpi degli americani contro la macchina sulla quale viaggiavo insieme a due agenti del Sismi e che hanno ucciso Nicola Calipari, ma anche quelli “sparati” contro di me dai miei rapitori: io, impegnata contro la guerra e l’occupazione dell’Iraq, sono stata rapita da chi sosteneva di combattere per la liberazione del proprio paese. Per di più, sono stata rapita mentre cercavo testimonianze sugli effetti delle bombe che hanno distrutto Falluja, cercavo di dar voce a chi non può averla attraverso i giornalisti embedded. Perché proprio me? È la domanda che mi ha tormentata durante la prigionia. Che fortunatamente è finita. E poi, l’angoscia: perché proprio Nicola Calipari? Avremo mai una risposta? Non possiamo rinunciare a cercare la verità. (da: Conclusioni, pp.155-57).

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