La Cosmographia di Tolomeo

Tolomeo, miniatura

Il codice

Claudio Tolomeo, Cosmographia
Ms. membr., lat., sec. XV (1460-66), cc. I-II,124,III-IV
Biblioteca Nazionale di Napoli, ms. V. F. 32


Claudio Tolomeo  (100-178 d.C.), nativo di Pelusium o di Tolemaide, bibliotecario ad Alessandria d’Egitto, viene unanimemente considerato il più famoso astronomo - teorico del geocentrismo - e l’ultimo grande geografo dell’antichità. I suoi studi, raccolti nella Γεωγραφική Υφήγησισ (Gheografiké uféghesis, Introduzione alla Geografia), sono da ritenersi la massima espressione delle conoscenze geografiche greco-romane. L’opera, quasi dimenticata nel mondo occidentale per tutto il medioevo, ma sempre apprezzata tra gli arabi,  ritornò in auge nel Rinascimento, allorquando l'umanista bizantino Manuele Crisolora, già alla fine del '300, la fece conoscere in Italia e il suo allievo Iacopo Angelo da Scarperia la tradusse dal greco in latino tra il 1406 e il 1409 nella Curia romana e, con il nome di Cosmographia, la dedicò al papa Alessandro V.
In essa Tolomeo tratta, in 8 libri,  i principi della geografia, intesa come conoscenza scientifica del mondo abitato (ecumene), le costruzioni – in modo moderno - delle carte, riportando in minuziosi elenchi  oltre ottomila luoghi conosciuti con le coordinate geografiche, da cui i buoni cartografi potevano dedurre le originali ventisette carte corografiche, da lui stesso  volute,  tra cui il planisfero.
Pur affinando le conoscenze raggiunte dal suo maestro Marino di Tiro e ancor prima da Ipparco, Tolomeo  preferì correggere la misura della circonferenza massima terrestre in 180.000 stadi, come determinato da Posidonio, allontanandosi dalla valutazione più esatta di essa di 250.000 stadi, calcolata da Eratostene. Ridefinì inoltre la localizzazione dei punti massimi dell’ecumene, che egli proponeva tra Thule a nord, Agisymba a sud, le Isole Fortunate ad ovest e Sera Metropolis ad est. Posizionò quindi l’ecumene in modo più veritiero, ma inesorabilmente rimpicciolì la sfera terrestre.

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Tolomeo, fervente assertore dei principi matematico-trigonometrici per la costruzione delle carte geografiche, aveva, purtroppo, per l’ovvia penuria  propria dei suoi tempi,  poche conoscenze astronomiche e, pertanto, la sua geografia ‘ecumenica’ trasferì nel medioevo, ma soprattutto nel rinascimento, errori di calcolo gravissimi, che determinarono conclusioni spesso fuorvianti all’epoca delle grandi scoperte geografiche.
Dall’inizio del '400 e fino a quasi tutto il '500, per effetto della riscoperta dei testi classici e per la venerazione della cultura greco-latina, la geografia tolemaica era legge in virtù della grande autorevolezza dell’autore. Esemplari di codici tolemaici si custodivano gelosamente  nelle più ricche biblioteche d’Italia e d’Europa, da quella degli Este a Ferrara, a quella dei Montefeltro ad Urbino, da quella romana della Curia a quella dei Medici a Firenze, da quella napoletana di Alfonso e Ferrante d’Aragona a quella di Mattia Corvino d’Ungheria e Luigi XII di Francia.
Colombo stesso, pur estimatore - e probabilmente disegnatore - di carte nautiche, che, ben più precise, ma purtroppo non considerate scientifiche,  pullulavano da almeno quattrocento anni in Europa, per la rappresentazione delle coste del Mediterrano, del continente europeo  e dell’Africa settentrionale, dovendo affrontare un viaggio intorno al mondo,  tenne in  gran conto il geografo alessandrino, fidandosi della misura tolemaica della circonferenza terrestre, che non induceva a pensare ad un nuovo continente tra l’Europa e il Catai (Cina) e il mitico Zipangu (Giappone) estreme terre dell’Asia, di cui si avevano notizie.

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Le carte tolemaiche - un planisfero, dieci per l’Europa, quattro per l’Africa, dodici per l’Asia - nella prima stesura,  considerate come la geografia scientifica, non furono mai accantonate per quasi due secoli, anche in numerose edizioni a stampa, semmai aumentate e  corrette con le dovute cautele e il profondo rispetto verso l’autore, fino a quando gli atlanti, ed in primis il Theatrum orbis terrarumdi Abraham Ortelius (1570), dal tardo cinquecento, le relegarono lentamente a sola testimonianza del sapere antico.
Il codice napoletano, uno dei più significativi dal punto di vista grafico e miniaturistico tra quelli che ci tramandano l’opera del geografo alessandrino,  è attribuibile alla prima redazione cartografica manoscritta, effettuata intorno al 1460-66 dall’umanista tedesco Nicolò Germanico, cosmografo e cartografo, attivo nelle corti degli Este e dei Medici.
L’ariosa decorazione del codice con modi fiorentini ‘a bianchi girari’ risente dello stile di Francesco Antonio del Chierico, uno dei più stimati miniatori della Firenze del 400. Le carte, in cui predomina lo smagliante azzurro del lapislazzulo e il luccichio dell’oro, offrono una buona visione  di toponimi ed anche di oronimi ed idronimi,  retaggio della geografia commerciale (itineraria) dei romani. Sviluppate secondo una proiezione conica su base trapezoidale, le carte ci presentano  il riquadro di una cornice esterna dorata con ornamenti filigranati in rosso e oro, a cui segue l’indicazione dei gradi di latitudine e longitudine in rosa. I mari, i fiumi e i laghi assumono i toni del blu oltremare, l’orografia color terra di Siena si intensifica fino al bruno laddove lo richiede l’altitudine, le pianure sono lasciate nel colore avorio vergine della pergamena, le foreste rappresentate da gruppi di alberi, illuminati da pennelate di ocra, le città evidenziate da piccoli cerchi dorati.
Il codice napoletano appartiene al fondo Farnese, risalente a papa Paolo III, già cardinale Alessandro Farnese (1468-1549), portato a Napoli, nel 1736, da Carlo di Borbone, figlio di Elisabetta Farnese, dopo la conquista del Regno di Napoli nel 1734.

Vincenzo Boni

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