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Mario dell'Arco

Invito alla lettura di Mario dell'Arco
di
Fulvio Tuccillo

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La poesia dialettale viene di solito ritenuta un genere letterario particolare, un’espressione legata a realtà locali, spesso caratterizzata dalla mimesi dei materiali più tipici della tradizione popolare. Ma questa consolidata opinione trova una smentita immediata proprio nelle vicende storiche della poesia del novecento. Non è solo la presenza, alle sue scaturigini, di alcuni grandissimi, come i nostri Di Giacomo e Russo, ma soprattutto il succedersi – in tempi molto più recenti – di nomi di scrittori di primissimo piano (Pasolini,  Marin, Noventa, Giotti, Loi, Guerra, Pierro, Zanzotto e tanti altri), spesso abili ad usare il dialetto come l’italiano, a confermarci che molti poeti contemporanei hanno scelto il dialetto come lingua capace di dar voce al loro mondo interiore. Si potrebbe sostenere che ciò accada per la necessità di sfuggire al tirannico dominio dei linguaggi serializzati e mediatizzati, pur se anche il dialetto si rivela poi una risorsa precaria, quasi un regno della memoria, dato che nella realtà il suo uso quotidiano tende inesorabilmente a restringersi ed impoverirsi. Ed infatti i poeti contemporanei di solito sentono il dialetto più come personale lingua poetica che come linguaggio atto a designare e rappresentare una particolare realtà, quindi rifuggono proprio da quelle tentazioni bozzettistiche o veristiche che il ricorso ad esso sembra suggerire, affrancandosi anche da strette dipendenze di tipo linguistico o stilistico. In certo senso è vero quanto affermava Croce a proposito del prediletto Di Giacomo, vale a dire che «molta parte dell’anima nostra è dialetto» e che, quindi, la scelta di poetare in dialetto non solo è pienamente legittima, ma è anche qualcosa che sfugge ad una precisa intenzionalità o causalità. D’altronde è anche vero che l’opzione dialettale non è del tutto neutra, ci condiziona perché ogni linguaggio ha il suo particolare spirito, la sua tradizione ed una sua storia che è pure quella degli autori che l’hanno fatta grande. Questo vale particolarmente nel caso del romanesco che, appunto in quanto aperto al continuo influsso dell’italiano, non ha un ambito chiuso e riservato e dagli specialisti non viene nemmeno considerato un dialetto vero e proprio. Tuttavia il romanesco resta la lingua del grande Belli, «poeta saturnino, ribelle fino all’eversione nei suoi versi» e capace di descrivere ogni aspetto dell’animo umano (questo è il mirabile ritratto che ne veniva fatto a suo tempo da Primo Levi), una lingua spesso caratterizzata dal sarcasmo e dall’iperbole e che lo stesso Belli non esitava a definire «gretta, sconcia, abietta e buffona favella».
Ma il romanesco è anche la lingua di Mario dell’Arco, forse il maggior poeta dialettale romano del nostro Novecento (ed a parere di molti uno tra i maggiori del secolo scorso), che è stato capace di conferire ad esso una particolare leggerezza,  senza privarlo della sua vis ironica ma impiegandola invece come un tramite per dar voce a certe sottili vibrazioni dell’anima con apparente nonchalance, per costruire metafore ed allegorie di rara bellezza, per disegnare degli straordinari chiaroscuri. Rileva in proposito uno specialista come Pietro Gibellini, facendo riferimento ad un testo specifico, Il Vangelo secondo Mario dell’Arco, che qui «il linguaggio si fa addirittura più leggero dell’italiano» e che le «le poche tracce dialettali […] servono addirittura a rendere più scorrevole il soliloquio».La copertina di Er presepio de mamma
Dell’Arco per la verità resta tuttora un enigma letterario non pienamente disvelato. Mario Fagiolo (questo il suo vero nome) nasceva nel 1905 a Roma da una famiglia originaria di Genzano. Il nonno Giovanni era proprietario di vigne ed aveva aperto ben tredici osterie per meglio smerciare il suo vino, il padre Cesare – di fronte ad un improvviso tracollo di quest’attività – si era improvvisato egli stesso oste senza mai amare il suo lavoro. Dopo aver compiuto i primissimi studî presso scuole tenute da suore tedesche ed inglesi, il giovanissimo Mario aveva riscoperto – forse per contrapposizione – la dolcezza della parlata materna e poi aveva pubblicato le prime raccolte di poesie, Io e Nina ed Enrico Toti-Sonetti romaneschi, rispettivamente nel 1924 e nel 1925. Nel 1928 Mario Fagiolo si laureava in architettura ed iniziava una carriera abbastanza fortunata (tra l’altro è suo il progetto del palazzo delle Poste di Piazza Bologna a Roma); una carriera tuttavia destinata ad esaurirsi quando egli scopriva una vocazione più forte e prepotente, quella di poeta. I veri e propri esordi poetici di dell’Arco avvengono però molto più tardi, con la raccolta Taja ch’è rosso, che appare nel 1946 con prefazione di Antonio Baldini. Qui lo scrittore impiega per la prima volta il fortunato pseudonimo che ci rimanda alla sua professione, quasi a suggellare il distacco dalla produzione precedente; nello stesso anno rifiuta la paternità artistica degli scritti anteriori al ’45. Critici come Trompeo, Baldini, Mazzocchi Alemanni immediatamente si rendono conto della novità della sua poesia ed è Trompeo a definire dell’Arco – in un intervento che poi è stato all’origine di tutta una tradizione critica – «la più limpida voce di poeta che da Trilussa in qua si sia sentita nel nostro dialetto»; ma Trompeo fa rilevare anche come dell’Arco già superi la dimensione tradizionale della dialettalità, rinunciando pure a certi artifici che di questa tradizione erano parte.  Poco più tardi lo stesso Pasolini, che insieme a dell’Arco sarà curatore di quella fortunata Antologia della poesia dialettale pubblicata da Guanda nel 1952, sottolineerà con più forza questi caratteri della sua opera poetica. A questi riconoscimenti si uniranno poi quelli di Contini, Bo, Bocelli, Petrocchi, Sciascia, don Giuseppe De Luca e di molti altri. V’è da aggiungere però che, se la lunga attività poetica di Mario dell’Arco dura fino al 1995 (anno della scomparsa), tuttavia la sua opera a tale data appariva ancora dispersa in una vasta serie di piccole e talvolta minuscole raccolte, all’incirca cinquanta, alcune delle quali ripresentavano insieme ai nuovi lavori composizioni già edite. Insomma – per circa quarant’anni – l’architetto Mario Fagiolo, se da una parte intraprendeva anche un’instancabile e minuta attività editoriale, dall’altra accuratamente evitava di costruirsi quel monumentum aere perennius che avrebbe dovuto consacrare definitivamente la sua fama e tramandarla ai posteri. Forse è proprio questo rifuggire dagli alienanti meccanismi della consacrazione letteraria e del successo, cui contradditoriamente si accompagna una predilezione per una diffusione editoriale minuta e quasi amicale, uno dei segni più tipici dell’autenticità della sua vocazione poetica. Si può supporre inoltre che dell’Arco condividesse con molti scrittori contemporanei una fede ostinata, una generosa illusione che talvolta si è rivelata esiziale per il destino della loro opera: la convinzione che la poesia, che è nel mondo, che è di tutti, sia destinata a sopravvivere comunque, appunto perché esprime qualcosa di universale che non può essere subordinato alle sue manifestazioni empiriche, ad una fenomenologia editoriale. Tra i tanti «sommersi», vittime di questa nobile ostinazione, vorrei ricordare almeno il nome di Vincenzo Borelli,  scrittore dotato di autentico e profondo talento.


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Copertina di Purificato per edizione delle Poesie del 1949 Comunque, rispetto alla situazione editoriale appena descritta, sicuramente provvidenziale appare l’iniziativa presa dal Comitato per la celebrazione del centenario di Mario dell’Arco di riunirne tutte le poesie in un bel volume curato da Carolina Marconi, arricchito dai contributi di Pietro Gibellini e Franco Onorati e pubblicato dall’editore Gangemi (Mario dell’Arco, Tutte le poesie romanesche. 1946-1995, Roma, Gangemi, 2005).
Ma quanto si diceva in precedenza serve anche a confermarci la particolare condizione di questa poesia, che sembra alimentarsi di nulla e sopravvivere ed illuminarsi in uno scenario straordinario, che avrebbe potuto anche oscurarla o – peggio – banalizzarla (quello dell’aeterna urbs, che forse è tale anche e soprattutto nel nostro inconscio, ben oltre le convenzioni retoriche). Dell’Arco, come nessun altro forse, riesce a ridar vita ai monumenti ed ai luoghi illustri di Roma, che in certo senso diventano anch’essi elementi di uno scenario naturale: piccoli capolavori sono Piazza Navona, ove anche «le bestie de marmo, aria a le gamme» entrano a far parte del «bailamme», e La quercia der Tasso, che «esce su la stampella / e poi se ferma co’ la mano stesa, / a un passo da la chiesa, / come una poverella» (ivi, p. 12). Un esempio particolarmente significativo è poi quella straordinaria Via Crucis che il poeta immaginariamente ripercorre in Ponte dell’Angeli (ivi, pp. 52-55). Il celebre scenario del ponte, con ognuno degli angeli che ci rimanda ad una tappa della Via Crucis, sembra quasi dissolversi in una viva ed a tratti quasi sconvolgente rimeditazione della Passione, che la rende a noi contemporanea, perché essa diventa la passione di ogni uomo; e così anche gli angeli, dispersi dal vento come «na manciata  de farfalle» (si tratta di un evidente paradosso dato che nella realtà sono statue marmoree) riacquistano la loro natura eterea. Nel quadro successivo, La basilica, pure gli apostoli sono pienamente umanizzati: «Indove sta Matteo? / E Andrea, e Giovanni, e Giacomo, e Taddeo? / Troppo straccioni co na vesta sola / rittoppata, e la sola / der sannalo sfonnata. / Stanno de fora, all’aqua, ar vento, ar gelo: / sur cornicione, e la capoccia in celo» (ivi, p. 55) e Gesù stesso si fa «omo in un gregge d’omini», che diventa «più fitto», «più strappato, più rognoso». Come Belli, dell’Arco, se ripudia le espressioni esteriori e rituali della religione cattolica (si veda in questo senso La porta) e registra con lucida angoscia la lontananza di Dio dall’uomo e dell’uomo da Dio, tuttavia rimedita in profondità il messaggio cristiano umanizzandonene le manifestazioni più significative, pur se sostanzialmente rinuncia ai corrosivi sarcasmi così cari al grande poeta ottocentesco. Il punto più significativo di questo complesso atteCopertina di Emilio Greco per La peste a Roma (Roma, 1952) ggiamento sembra consistere proprio in un attonito soffermarsi di fronte ai grandi interrogativi del cristianesimo, che dell’Arco sente come drammaticamente attuali anche per l’uomo moderno, malgrado il suo radicale scetticismo, il suo totale immanentismo. Forse nemmeno a dell'Arco si potrebbe chiedere una professione di fede (perché fede non v’era)  eppure nessuno è andato più avanti di lui – ha scritto recentemente Franco Onorati – riguardo alla «umanizzazione della scrittura, all’incarnazione di Cristo nella storia, alla condivisione della condizione umana».
Anche da questo punto di vista, per questa meditazione intensa e tesa, spesso scetticamente desolata ma sempre in qualche modo partecipe, del messaggio evangelico si potrebbe sostenere che dell’Arco si avvicina a Pascoli (un’indicazione che rimandava a Pascoli v’era già nel saggio di Trompeo), pur se è proprio la luminosa solarità dei suoi versi a farne un personaggio tanto diverso dal poeta romagnolo. Ma a Pascoli dell'Arco si accosta sicuramente anche per un’altra ragione: perché i suoi versi il più delle volte sembrano fatti di materia lieve, quasi impalpabile, eppure creano un’atmosfera inconfondibile, ci comunicano un universo di sensazioni e di riflessioni.
Dell’Arco è un poeta che va conosciuto a fondo e che si nasconde ad una lettura superficiale. I suoi frammenti, presi uno per uno, non ci trasmettono sensazioni forti, ma nel loro complesso, oppure fruiti nei vari contesti tematici, ci comunicano un’emozione intensa, piena, il senso di un mondo che è totum suum. E poi è anche un autentico maestro nella tecnica dell’understatement,  un finissimo letterato che sa dispensarci citazioni coltissime alla chetichella, con consumata dissimulazione. Sono tutti da leggere i suoi Marziale, Catullo, Orazio, autentiche versioni in romanesco e non semplici traduzioni, molto spesso interpretazioni lontane dall’originale che ci aiutano a riscoprirlo meglio di tante e tante versioni letterarie. Pertanto non posso fare a meno di dispensare al lettore due brani da Marziale, diciamo tra i più innocenti, e malgrado ciò irresistibili. Il primo: «Nun te la presto mille lire, ma / te n’arigalo, Biacio, cinquecento. / Pijele! Me contento / de perde la metà», che rende il testo di Marziale: «Dimidium donare Lino quam credere totum / qui mavolt, mavolt perdere dimidium». Ed il secondo, molto più corrosivo: «La sora Pasqualina ha sotterrato / sei mariti: sei moje er sor Pasquale. / Famo sto pangrattato / subbito, e risparmiamo un funerale», che rende con l’impagabile evocazione del pangrattato un luogo di Marziale molto più severo (da Marziale per un mese, ivi, pp. 144-45). Potrei continuare così a lungo, ma basti dire che l’altra raccolta dedicata a Marziale s’intitola Fatemi divertire. Marziale per un altro mese.


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Poi v’è un dell’Arco di assoluta e classica purezza, quello a me più caro. È il poeta di Acqua e celo: «Usciva l’acqua a goccia / a goccia da la roccia. / Ancora resta er gelo / dentro a le mano unite – e bevo ancora / come allora acqua e celo» (ivi, p. 221). Oppure quello che affronta la vita ed il dolore, consapevole di essere parte di un tutto, del mondo meraviglioso, incomprensibile, terribile. E di questo dell’Arco si potrebbe ben dire quanto affermava Cesare Pavese di Melville. Infatti Pavese definiva lo scrittore americano «un greco» per sottolinearne la profonda cultura,  che gli permetteva di iniziare persino Moby Dick, «il poema della vita barbara», con lunghe pagine di citazioni, ma poi evidenziava come Melville riportasse sempre il lettore ai liberi orizzonti della vita vissuta, alla sua aria vivificante. Questo dell’Arco è il poeta semplicissimo di Paura d’essè solo: «Paura d’èsse solo. / Invento un’osteria – e pesco a volo / un amico: un amico / pronto a divide (spero) / un pensiero sereno. / Odor de vino – e / a la salute! Dico: / ma er tavolino è vòto avanti a me / in mano a me er bicchiere resta pieno» (p. 297); anche il poeta che si sofferma a descrivere con scherzosa affettuosità il mondo della natura e le sue presenze: i gatti, gli uccelli (era un fermo osteggiatore della caccia), gli olmi. Un uomo che dentro di sé ha conservato sempre qualcosa dell’adolescenza: «Un chiodo e un chiodo a fonno / ar tronco: l’ormo era / un arbero de nave – e er regazzino, leggero er piede, la mano Copertina di Dietro una frascaleggera / er padrone der monno. / Er chiodo m’incoraggia a la scalata: / ma la mano è de piommo, / de piommo er piede. L’ormo / è una nave arenata. / Anni e anni cammino, / dentro a me / chiuso un ormo: finché / ritrovo er colle, ritrovo l’ormata. / L’ormo pianta le radiche / e ogni rama formìccica de foje. / Io pianto er piede e subbito se scioje / dar core la brinata» (Ormo più ormo uguale a ormo, ivi,  pp. 185-86). Indimenticabile è poi il poeta degli affetti perduti: la madre e soprattutto il figlioletto mortogli in tenera età. Così, con un’immagine  di straordinaria semplicità, egli ricorda la madre: «Un  regazzino fermo / sempre a l’istessa età. / M’affido ancora a te / ancora m’ariggiro / come in un nido ner respiro tuo // Poche e gnente parole / t’ho detto. Adesso troppe / e s’affolleno in gola. / Inutile che aspetto la risposta / Sbatte contro er silenzio ogni  parola / e come un sasso m’arimbarza in petto» (A mia madre, ivi, p. 295). Ed è la mancanza del figlio a riproporgliene ogni volta la presenza: «Er pupo è ritornato / su una striscia de sole. Sento er fiato / e la pelle ch’è un raso: / aspetto le parole. / E me trovo che faccio a naso naso co una striscia de sole» (Una striscia de sole, ivi, pp. 26-27). Il trenino, il cavallo a dondolo, la barchetta di carta, la trombetta, il gioco della conchiglia, la ninnananna ci riportano ad attimi di vita nei quali rivive una presenza ed una mancanza, che rallegrano e dilaniano,  riproponendo il lacerante paradosso dell’esistenza e del tempo. Allora non stupisce che ancora una volta l’invocazione si tramuti in rimprovero, quasi in invettiva e la speranza in disillusione, come ne La tempesta oppure in Lazzaro, oppure ancora ne Il Vangelo secondo Mario dell’Arco:«Quanto hai detto, Gesù, / stampata addosso l’ombra d’una croce, / è scritto ner Vangelo. / Io nun so lègge: io nun vojo lègge. / Più fermo d’uno scojo, / l’occhi ancorati ar celo, / aspetto er lampo de la voce tua» (Vangelo secondo Mario dell’Arco, ivi,  p. 281). Dell’Arco canta il dolore che è anch’esso vita, che si manifesta anch’esso come un raggio di sole: «Finchè punti un ditino ar sole, intorno / è sempre giorno e er core / come una meridiana segna l’ore» (È sempre giorno, ivi,  p. 132).
Ma se è vero che ogni poeta è legato ad un posto, ad una città e lo è in modo particolare, bisogna aggiungere che una delle cose che più affascinano nella poesia di Mario dell’Arco è proprio l’aprirsi di un orizzonte libero, luminoso fra i monumenti e le piazze di Roma, una Roma che a sua volta si espande verso le borgate e poi la campagna (del resto proprio Tormarancio, che trae ispirazione dalla vita dell’omonima borgata, è delle sue più note composizioni e dà poi il titolo ad un’intera raccolta). Il dell’Arco che rivisita i luoghi più belli e famosi di Roma, è anche il poeta di Genzano che «beve fiori e vino», ancora una volta un “provinciale” che fa grande la letteratura di Roma proprio come l’avevano fatta grande secoli prima Terenzio, Catullo, Orazio, Marziale, Giovenale, tutti venuti da province vicine o lontane. Anche da questo punto di vista dell’Arco si rivela dunque un funambolico angelo della poesia – per riprendere l’immagine a suo tempo proposta da Trompeo, che si riferiva alle “trovate” del poeta – capace veramente di far versi con un niente, di darci delle costruzioni di straordinaria leggerezza, che tali rimangono anche quando sono – per la loro stessa concezione – ricche e complesse. Si veda ad esempio quell’affresco straordinario che è La peste a Roma (1952), con i quadri indimenticabili del convento, del bordello, della fossa, di grandezza quasi epica. Non sfuggirà che qui dell’Arco si cimenta con illustri predecessori, da Tucidide a Manzoni, a Camus. Quindi non può costituire nemmeno motivo di stupore il fatto che gli interpreti della sua poesia siano rimasti quasi perplessi di fronte alla varietà ed alla plasticità dei suoi toni, riproponendone immagini talvolta molto differenziate (ad esempio si è parlato di un dell’Arco «decadente» oppure di un dell’Arco «barocco»). Ed allora forse si comprende meglio anche perché dell’Arco spesso ripubblicasse le poesie di una raccolta in quella successiva, quasi come se volesse proporci non una serie di frammenti ma un continuum, un orizzonte complesso e polìcromo.


Le immagini sono state tratte dal volumetto Parole e musica. Omaggio a Mario dell’Arco nel centenario della Nascita, pubblicato a cura del Comune di Roma e del Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli (Roma, 2005) e dal libro di Franco Onorati La stagione romanesca di Leonardo Sciascia. Fra Pasolini e Dell'Arco (Milano, 2003)
1. Mario dell'Arco
2. La copertina di Er presepio de mamma
3. Copertina di Purificato per edizione delle Poesie del 1949
4. Copertina di Emilio Greco per La peste a Roma (Roma, 1952)
5. La copertina di Dietro una frasca


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Un ritratto a matita di E. Dragutescu

Indicazioni bibliografiche

Le indicazioni bibliografiche relative alle citazioni di opere di dell’Arco sono nel testo. Per gli altri luoghi citati cfr. B. CROCE, Salvatore Di Giacomo, in  La letteratura della Nuova Italia. Saggi critici, III, Bari, Laterza, 1943 (4. ed.), p. 99; la prefazione di Pietro Gibellini a Tutte le poesie romanesche cit., p. XII; P. LEVI, La pietà nascosta sotto il riso, in La ricerca delle radici. Antologia personale, Torino, Einaudi, 1981, p. 165; C. PAVESE, Hermann Melville, in La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1990, p. 75.  L’articolo di Trompeo è riportato da Franco Onorati nel suo lavoro su La fortuna critica di Mario dell’Arco che compare nel volume Tutte le poesie romanesche; l’indicazione originale è tuttavia la seguente: P. P. Trompeo, Nuova poesia romanesca, in «La Nuova Europa», gennaio 1946. Per le considerazioni sull’atteggiamento di dell’Arco verso il cristianesimo cfr. F. Onorati, Il Vangelo secondo Mario dell’Arco, ne Il sacro nella letteratura in dialetto romanesco. Da Belli al Novecento, Roma, Edizioni Studium, 2003, p. 255. D’altronde non è possibile fornire in questa sede un quadro complessivo dei contributi critici relativi alla poesia di Mario dell’Arco, appunto per il loro numero e la loro varietà.

A sinistra: Un ritratto a matita di E. Dragutescu


 La copertina di Pupo biondo

Altre notizie e riferimenti

Mario dell’Arco ha sempre nutrito uno spiccato interesse per la musica ed anche nel periodo precedente al 1945 - quando non aveva ancora assunto il suo nome d’arte -  ha scritto il testo di varie canzoni in collaborazione con musicisti come Lay, Zuccoli e Luzi (anch’esse, dunque, fanno parte della produzione di cui poi non ha riconosciuto la paternità artistica). Fra queste canzoni di genere melodico e gusto tradizionale scritte anteriormente al 1945 la più famosa è «Pupo biondo». Ma anche successivamente dell’Arco si è cimentato con la musica: una recente e significativa riscoperta sono le Cinque poesie romanesche musicate nel 1946 da Mario Castelnuovo-Tedesco, bravissimo musicista rifugiatosi nel 1939 negli Stati Uniti, in conseguenza delle persecuzioni razziali. Queste notizie insieme ad una dettagliata ricostruzione dello sviluppo degli interessi musicali e dell’attività di paroliere di Mario dell’Arco si possono leggere nel volumetto Parole e musica. Omaggio a Mario dell’Arco nel centenario della Nascita, pubblicato a cura del Comune di Roma e del Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli in occasione della manifestazione svoltasi il 14 dicembre 2005 presso il teatro Valle di Roma; da questa stessa opera sono state riprodotte alcune delle immagini che corredano questo lavoro.

A sinistra: La copertina di Pupo biondo


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© Biblioteca Nazionale di Napoli (giugno 2006)
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