parte
II: dagli scritti di Dino Fienga
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Il
caso Fienga: le testimonianze di una vita straordinaria
di
Fulvio Tuccillo
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Il
caso Fienga è appassionante non solo perché
assolutamente eccezionali furono le vicende e gli eventi che scandirono
la vita di Dino (Bernardino) Fienga, ma anche per quella nota di
assoluta limpidità che sembra caratterizzare tutto il suo
itinerario esistenziale. A ciò si deve aggiungere che la
memoria non ha beneficiato un uomo che fu sempre pronto a mettersi
in gioco con grande generosità. Forse fin da quando,
giovanissimo, trovandosi ad assistere alla violenza di cui era
vittima un garzone di panettiere, in occasione di uno sciopero
di piazza, sentì il
peso e l’offesa dell’ingiustizia e decise di intraprendere
un cammino che lo portò – alcuni anni più tardi – ad
aderire prima al Partito Socialista e poi a quel Partito Comunista
che nasceva con la scissione di Livorno del 1921, di cui fu uno
dei fondatori e divenne uno dei più importanti rappresentanti
in Campania (fu anche il primo segretario della federazione di
Napoli).
Si trattava di un cammino difficile ed anche doloroso
per un giovane di ottimi studi, di brillante intelligenza, che
veniva da una famiglia importante ed agiata.
Deferito al Tribunale Speciale a seguito delle leggi che ponevano
fuori legge i partiti antifascisti, incarcerato a San Vittore nel
maggio del 1927 e qui detenuto per circa un anno e mezzo, Dino
Fienga, che nel frattempo aveva anche perduto la madre schiantata
dal dolore, all’uscita
dal carcere si trovò nell’impossibilità di
esercitare la sua professione di medico, perché radiato
dall’albo
ed allontanato dall’ospedale che dirigeva, ed inoltre impedito
a svolgere qualunque attività
politica perché strettamente sorvegliato dalla polizia.
Decise quindi di espatriare ed andò in Francia, quasi una
tappa obbligata per gli esuli antifascisti. Fu poi valoroso combattente
nella guerra di Spagna nella qualità
di ufficiale medico, ma proprio in Spagna – per dirla con
le sue parole – visse la sua Kronstadt «assistendo
durante la guerra antifascista alla messa in opera dei metodi stalinisti».
La tappa successiva della sua diaspora fu il Messico ed in Messico
egli pubblicò nel 1945 un’importante opera dedicata
a Francesco d’Assisi, Francisco «el pobrecillo de
Asís», oggi citata in tutte le bibliografie
specialistiche e notevole anche per l’analisi storica del
movimento francescano nelle sue diverse
espressioni (quarant’anni
più tardi, nel 1995, è stato pubblicato postumo dalle
Edizioni San Paolo il volumetto Francesco il povero di Dio,
che ne ripropone temi e motivi). Comunque
già questa
monografia attesta un significativo mutamento di orizzonti, che
per certi versi accomuna Fienga a personaggi come Silone e forse
anche Tasca, pur da lui tanto diversi, i quali, proprio
attraverso l’esperienza concreta delle terribili angustie
della lotta politica, riscoprivano un antico messaggio di redenzione.
Dino Fienga tornò in Italia un anno più tardi,
nel 1946, e venne poi a lavorare presso la Biblioteca Nazionale
di Napoli, prima inquadrato nei ruoli aggiunti, poi dal 1966
in quelli ordinarî. Ciò gli
consentì di operare in un ambiente ospitale ed a lui senza
dubbio congeniale – tra l’altro era stato anche editore
e curatore di un’importante rivista di bibliografia medica –
ma sicuramente appartato rispetto ai grandi scenari in cui si era
mosso. Fienga, che nel frattempo si era fatto terziario francescano,
morì nel 1975. Ma le testimonianze sull’ultimo periodo
della sua vita sono carenti.
Già queste
scarne notizie biografiche – di
proposito mi sono voluto attenere solo ai dati certi – sono
sufficienti a captare tutta la nostra attenzione. Devo
aggiungere, come considerazione personale, che l’interesse
per questa figura è nato per due circostanze particolari.
In un primo momento sono stati proprio gli ex-libris del Fondo
Fienga – la
collezione libraria da lui donata alla Biblioteca Nazionale di
Napoli – a
suscitare una forte curiosità: insoliti, estremamente sobri,
con una grafica elementare in chiaroscuro, sembrano evocare uno
scenario notturno e angoscioso. Ma in alto, al di sopra delle vette
dei monti, compare la piccola immagine di un aereo ed essi recano
come epigrafe un motto semplice e quasi struggente: partire è
vivere, restare è morire. V’è quasi tutto
Fienga in questa frase, probabilmente: la sua inquietudine, il
suo coraggio ed anche la sua fedeltà a se stesso, una fedeltà di
cui il viaggio, il partire (nel senso letterale ed ancor più in
quello metaforico della parola) rappresenta, in quanto costante
ed ininterrotta ricerca di una dimensione d’autenticità,
una componente essenziale. Si può dire pertanto che anche
quello di Fienga fu un viaggio alla scoperta di se stesso, un altro
viaggio. L’altro fatto che ha acuito enormemente l'interesse è consistito
nella scoperta che Fienga era autore di quella monografia dedicata
al santo di Assisi, cui ho accennato. Come mai – mi chiedevo – un
uomo come Fienga, che era stato uno degli esponenti di maggior
spicco del partito comunista nei suoi primi anni di vita ed aveva
combattuto nella guerra di Spagna dalla parte della Repubblica
(con tutto quello che ciò
aveva comportato), era anche autore di un’opera che costituiva
la sicura testimonianza di una fede ritrovata? Aggiungo inoltre
che, se immediatamente ho sentito l’impulso di approfondire,
ad un certo punto mi sono fermato a lungo, perché le testimonianze
erano frammentarie ed ancor più perché l’evoluzione
di Dino Fienga appariva così travagliata e sorprendente
da lasciar adito alle più diverse interpretazioni ed anche
a possibili deformazioni. A tutto ciò si univa la carenza
di informazioni importanti, quali ad esempio quelle riguardanti
il periodo del secondo dopoguerra. Insomma il rischio era che si
potesse utilizzare il Fienga «francescano» contro il
Fienga «comunista»,
o viceversa che si parlasse molto del Fienga comunista e combattente
nella guerra di Spagna, riducendo l’ultimo passaggio di questa
travagliata biografia ad un esito marginale.
Invece, paradossalmente,
l’originalità della vicenda di Fienga consiste – a
mio parere – proprio nella sostanziale, subliminale continuità
che caratterizza anche i momenti di svolta, nella mancanza di quelle
violente lacerazioni interiori e di quelle tormentose abiure che
contrassegnano storie come questa. Il Fienga francescano è un
uomo ancora convinto della necessità di un riscatto dell’umanità dai
suoi vincoli politici ed economici, come d’altronde il Fienga
comunista era già un uomo di orizzonti culturali così
larghi da non potersi fermare di fronte a certi steccati ideologici.
Sembra anzi che le diverse scelte da lui operate siano scaturite
da una medesima ragione di vita, dalla stessa radice ideale, da
disposizioni esistenziali che nemmeno certi terribili impatti hanno
potuto sopprimere.
Una prima possibilità di approfondimento
dei tanti risvolti di quest’esperienza umana ed intellettuale
straordinaria è
offerta dalla ricognizione della bibliografia delle opere di Fienga,
che, nel loro complesso, testimoniano di una gamma d’interessi
quanto mai vasta e di un’attività quasi febbrile:
agli scritti di medicina si affiancano quelli a carattere storico
e quelli di biblioteconomia, che delineano prospettive sorprendentemente
moderne. E forse, a questo punto, è opportuno aprire un
breve inciso: infatti Fienga concepisce la biblioteconomia non
come un mero supporto tecnico ma come un’autentica scienza
della documentazione. Inoltre è uno dei primi a parlare
di automazione nelle biblioteche e non lo fa in modo astratto e
distaccato, ma con stretta e precisa cognizione di causa: i suoi
scritti dedicati all’argomento
suscitano stupore ed ammirazione, non solo per il tono scientifico
e la precisa conoscenza delle problematiche, ma anche per la lucida
consapevolezza che Fienga ha dell’importanza della cibernetica
e dell’elettronica nella vita moderna, in tempi nei quali
gli elaboratori erano appena agli albori ed ancora funzionavano
con schede perforate.
Restano da ricordare poi – per
dare un’idea
completa della produzione di Fienga – anche i romanzi e le
poesie. Comunque, nel loro complesso, gli scritti di Fienga, col
loro stile febbrile, ellittico, metaforico, rapidissimo, sono espressione
di un’intelligenza appassionata e vivacissima, di un’umanità non
vinta né dal risentimento né dalle sofferenze, talvolta
di un talento giornalistico non comune; e colpisce molto il fatto
che l’ultimo rifugio di un personaggio così vivace
ed intenso ed anche il luogo dove oggi è
ancora possibile «incontrarlo» sia una grande biblioteca,
che, come tutte le biblioteche, può considerarsi luogo di
vita virtuale per eccellenza.
Non v’è nulla che sia banale
o scontato nella vita ed anche negli scritti di Dino Fienga, sempre
insoliti ed interessanti, e ciascuno di essi merita attenzione,
come può testimoniare la minuscola antologia proposta in
appendice. Resta però particolarmente significativo, per
chi voglia approfondire la vicenda biografica, quell’opuscoletto
che parafrasa il titolo
di un’opera famosa (vale a dire Il dio che è fallito,
raccolta di scritti di intellettuali come Gide, Koestler, Silone
ed altri, che furono comunisti negli anni Trenta e poi vissero
la medesima crisi ideologica, iniziata di solito col ripudio dello
stalinismo) e reca, quasi in esergo, una celebre citazione dal Don
Chisciotte (viene
infatti richiamato quel luogo dell’opera di Cervantes, ove
lo scrittore afferma che il suo vero desiderio era
«far aborrire agli uomini le false e strambalate istorie
dei libri di cavalleria») ed una dedica struggente: A
tutti quelli che sognarono con me e ne morirono. La presenza
di Cervantes, ed anche di altri autori spagnoli come Machado, è costante
negli scritti di Fienga ed attesta non solo il suo amore per una
cultura, ma tutta la sua ironia, il suo umanesimo: Don Chisciotte,
figura allo stesso tempo nobile e ridicola, personaggio generoso
e folle, animato da ideali alti ma espressi in modo paradossale
e fallace, finisce per rappresentare l’essenza stessa della
condizione umana, la positività e la negatività del
delirio. Quindi l’autorappresentazione donchisciottesca di
se stesso, più volte
accennata in queste pagine, non è tanto una diminutio,
quanto piuttosto espressione della saggezza di chi è consapevole
che si può
attraversare il fuoco solo con passo lieve.
Del resto, se esiste continuità e
non frattura nell’esperienza di Dino Fienga, ciò probabilmente è dovuto
anche alla sua vasta e polimorfa cultura, alla sua capacità di
vedere i problemi umani sotto le angolazioni più diverse.
Ed a volte quasi stupiscono la serenità, l’ironia
e l’autoironia, l’apparente leggerezza con cui Fienga
affronta certe questioni. Un grande storico come Eric J. Hobswam
ha affermato che non si può scrivere – e quindi non
si può comprendere – la
storia del Novecento, ricorrendo agli stessi criteri adottati
per la storia di altre epoche. Fienga, che ha attraversato
i crocevia più difficili del secolo passato e ne è uscito
quasi miracolosamente indenne, ben conosceva la tragicità della
storia novecentesca e la sua irriducibilità a schematiche
consuete e sperimentate. E quindi il suo tentativo di andare oltre
le terribili angustie della contemporaneità, di estendere
il suo sguardo verso il passato e verso il futuro, oltre lo stesso
scenario europeo, la sua capacità di parlare di eventi tragici
con un certo distacco, con serena tranquillità, sono anche
espressione di uno sforzo di sopravvivenza mentale.
La
vastità di
orizzonti della cultura di Fienga è poi attestata, in modo
particolarmente significativo, proprio dai suoi lavori di ricerca
storica, da quelli dedicati alla storia armena ed al terribile
genocidio di quel popolo consumato agli inizi del secolo a quelli
dedicati alla questione irlandese, secolare punctum
dolens della
storia europea. Sorprende poi l’eccezionale dimestichezza
che Fienga dimostra con la storia del movimento francescano, movimento
per certi versi parallelo e per altri alternativo a quelli ereticali, «fuoco
che correva per le strade d’Italia» ma che doveva essere
l’inizio di una conflagrazione destinata a consumare tutta
la civiltà cristiana (riprendo qui l’efficace immagine
di uno dei migliori biografi di Francesco d’Assisi, vale
a dire Gilbert Keith Chesterton), fenomeno internazionale capace
di estendersi in poco più di un ventennio oltre gli stessi
confini d’Europa.
Il francescanesimo, alle sue origini, fu anche espressione
di un’esigenza profonda di rinnovamento e di rinascita spirituale
del cristianesimo, ragion per cui la figura di Francesco divenne
per i contemporanei quasi quella di un alter Christus, una
moderna reincarnazione del Cristo. Ma d’altronde ebbe una
sua storia complessa e travagliata e le vicende che caratterizzarono
il suo sviluppo, ad iniziare dalla lotta fra conventuali e spirituali,
punta forse più visibile di un conflitto interno che in
realtà durò molto
a lungo, non potevano non assumere una risonanza particolare
per Fienga, e forse evocare – alla pari della storia dei
movimenti ereticali – problemi molto più attuali,
come il conflitto tra le burocrazie di partito e le istanze libertarie, tra
le diverse incarnazioni della ragion di stato (o di partito) e
l’esigenza
di umanizzazione di ogni prassi politica. Analogamente l’azione
del papato, che aveva sì riconosciuto e legittimato il movimento
francescano ma successivamente non aveva mancato di colpirne le
espressioni più radicali, quelle pauperistiche e spiritualistiche
in contrasto con le esigenze del potere temporale, non poteva non
rammentargli la profonda ed irreversibile involuzione burocratica,
poliziesca degli apparati di partito e dell’internazionale.
E forse si può immaginare che più di una volta le
figure di uomini come Arnaldo da Brescia oppure Pietro Valdo e
Gioacchino da Fiore, e poi Angelo Clareno e Pietro di Giovanni
Olivi, il francescano provenzale che ebbe un ruolo di primo piano
nelle vicende dell’ordine
e fu ispiratore degli spirituali italiani [1], si
siano sovrapposte – nelle riflessioni di Fienga – a
quelle di Camillo Berneri, esule anarchico e raffinato intellettuale,
ucciso nei tragici fatti di Barcellona (tra gli eventi più
drammatici di quella autentica «guerra nella guerra» che
si combatté in Spagna), oppure di Mario De Leone, amico
personale di Fienga e – purtroppo per lui – anche di
Trotzsky, appassionato cultore di studi letterari e poi importante
esponente della componente bordighista, esule antifascista a Mosca,
e da Mosca, ove era benvoluto da tutti, costretto a fuggire al
primo annuncio delle purghe staliniane. De Leone si rifugiò poi
in Francia, ove gli stenti e le peripezie di una vita difficile
uccisero prima la moglie e poi lui stesso (si tratta di una vicenda
che Fienga narra con accenti commossi nell’opera a carattere
autobiografico menzionata). Ma in questo novero si potrebbero forse
includere anche uomini che furono protagonisti delle vicende di
questo tempo, come lo stesso Antonio Gramsci, che di Fienga fu
amico.
Del resto il parallelismo
tra la storia dei movimenti religiosi e quella dei movimenti politici
emerge con evidenza in qualche passaggio di Francisco «el
pobrecillo de Asís»: ad esempio laddove Fienga
propone esplicitamente la parafrasi di un’affermazione famosa
di Lenin, suggerendo che il gioachimismo si potrebbe dire quasi
un’espressione
infantile del francescanesimo. In realtà l’«estremismo» gioachimita
ebbe vita lunga e tornò più volte ad ispirare non
solo i movimenti ereticali ma anche le correnti più intransingenti
del francescanesimo medievale, quelle che si ispiravano al precetto
della povertà e che più volte i papi, ad iniziare
da Giovanni XXII, colpirono con le loro bolle (e talvolta gli inquisitori
con misure molto dure, non diverse da quelle riservate agli eretici).
Tutto
fa pensare, insomma, che il Fienga studioso di Francesco d’Assisi
non si sia chiuso nella contemplazione del passato, ma abbia continuato
a guardare anche al presente, come d’altra parte
confermano le ultime pagine della sua piccola ma densissima autobiografia.
Qui Fienga individua uno dei drammi del nostro tempo nel
fatto che libertà e giustizia non riescono a contemperarsi,
sembrano essere l’una in opposizione all’altra, ma
aggiunge anche che tra le sventure contemporanee la «morte
dello spirito […]
è la più irreparabile e grave, anche se la massa,
oppressa dalle necessità
quotidiane, stenta a rendersene conto». Non penso che in
questo caso egli intenda parlare necessariamente di un principio
trascendente spirituale ma piuttosto che egli intenda lo spirito
come espressione e conquista dell’uomo, dell’uomo che
tenta di dare alla vita un senso non puramente empirico, che persegue
amore e conoscenza e non si appaga delle verità fabbricate
in serie, che della verità
hanno solo l’apparenza. Dell’uomo vivo e reale e non
di un tipo umano astratto:
«E se mi affanno ancora – scrive Fienga – è per
salvare, o io m’illudo, appunto l’uomo in me e nei
fratelli, l’uomo vivente e non l’umanità astrazione;
perché
l’uomo immagine e somiglianza del Nazareno non perisca».
Può quest’ultima riflessione considerarsi una conclusione
sufficiente per siglare questa breve nota? Non lo so e non intendo
in alcun modo proporre, con questa brevissima ricostruzione di
un itinerario biografico così travagliato, un ritratto esemplare,
oppure indicare l’approdo alla spiritualità
cristiana come esito
necessario di un percorso. Se v’è esemplarità in
questa vicenda, essa consiste appunto nella sua purezza e nell’accento
posto sull’uomo vivente, sulla concreta esperienza umana
che si contrappone a tutti gli stereotipi, sulla necessità di
riscoprire costantemente il senso della condizione umana senza
irrigidirlo nelle astrazioni, senza coartarlo in nome di una qualsiasi
ortodossia. Ma per me il senso profondo del messaggio di Fienga,
quello che lo rende ancora vivo per noi, è anche un altro.
Il Fienga che si riconverte, che riscopre il messaggio cristiano
in una delle sue espressioni più intense ed essenziali (ma
anche meno istituzionali), è originariamente
un uomo che cerca una via di scampo da una storia che sembra non
lasciarne. Una storia che appare chiusa tra alte muraglie tuttora
abbastanza salde: da una parte le terribili aberrazioni dei totalitarismi,
dall’altra la sottomissione degli uomini e dei popoli alle
leggi ed alle logiche del profitto. È una
storia che ancora incombe su di noi, con i suoi terribili pendants,
con le sue grandi tragedie, con le sue eredità pesantissime,
ma quest’uomo capace di sorridere con ironia dei suoi sogni
e d’illuminarsi di questo sorriso, quest’uomo che ha
pagato uno scotto molto duro per essi, è uno di coloro
che ci dicono che un mondo diverso forse è
ancora possibile. Forse è lì, appena oltre l’orizzonte: partire è vivere.
[1]. Pietro
di Giovanni Olivi era nato a Serignan, nella diocesi di Beziers
(città ove quasi tutta la popolazione era stata
massacrata durante la terribile «crociata» contro gli
Albigesi, nel 1209) tra il 1248 ed il 1249. Fu anche docente di
teologia a Firenze ed entrò in stretti rapporti con Ubertino
da Casale ed Angelo Clareno. Dopo la sua morte (1298) fu venerato
come un santo a Narbona ma in seguito ai provvedimenti di Giovanni
XXII, la sua tomba fu distrutta e le ceneri disperse. Le ricerche
degli storici confermano che la repressione del movimento degli
spirituali e di quello dei beghini, che non erano movimenti ereticali
come quello cataro, pur se dai movimenti ereticali ereditavano
il pauperismo, fu molto dura, con processi, condanne al rogo ed
altro. Gli spirituali furono trattati quasi alla guisa di eretici
veri e propri (sull’argomento è ancora bello ed interessante
il volume di Raoul Manselli Spirituali e beghini in Provenza,
Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1959). [^
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Nazionale di Napoli - aprile 2008 |