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Monica Farnetti, Il centro della cattedrale. I ricordi d’infanzia nella scrittura femminile. Dolores Prato, Fabrizia Ramondino, Anna Maria Ortese, Cristina Campo, Ginevra Bompiani, Mantova, Tre Lune, 2002

Delle pagine autobiografiche di cinque grandi autrici italiane del Novecento Monica Farnetti analizza quelle dedicate all’infanzia e alle due esperienze che segnano con forza i primi anni della vita e li rendono memorabili: la scoperta dello spazio e l’acquisizione della lingua.

Monica Farnetti insegna Letteratura Italiana allo Smith College fra Firenze e Northampton (Massachusetts), e svolge attività di ricerca presso l’Università di Firenze. Ha pubblicato saggi su autori e problemi della letteratura italiana antica e moderna, con particolare interesse per la teoria letteraria e la scrittura femminile. Si ricordano le monografie su Cristina Campo (Tufani, 1996) e Anna Maria Ortese (Bruno Mondadori, 1998), e la cura dei volumi di C. Campo, Sotto falso nome (Adelphi, 1998) e di A. M. Ortese, L’infanzia sepolta (Adelphi, 2000).

(dalla terza e quarta di copertina)

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Rendere narrabile la vita così com’è e come la si è vissuta non è possibile. Di questa semplice e dirompente premessa appare finalmente persuasa la critica letteraria, che discutendo oggi in materia di autobiografia ha abbandonato i propri tradizionali postulati (sincerità, verità, realtà, autenticità ...) per accogliere invece, in tutte le sue implicazioni, il presupposto che l’esperienza non sia traducibile in linguaggio. Non si discute più, dunque, in termini di sovrapposizione fra vissuto e scrittura, ma piuttosto di trasposizione dal vissuto all’inventato, si tiene conto dello scarto d’invenzione che ogni scrittura produce, e su quello scarto si lavora. […] si alza, ed evidentemente si complica, il livello teorico della discussione, che per di più deve tener conto, una volta virata nella direzione specifica dell’autobiografia femminile, della necessità di rivedere radicalmente, in una prospettiva adeguata, tutte e tre le unità costitutive dell’esperienza dell’auto-bio-grafia: vale a dire l’interesse individuante (o del sé), quello documentario (della vita), e quello della valorizzazione della componente della scrittura. Per quanto riguarda la prima e insieme l’ultima delle tre unità, da assumersi nella loro necessaria interdipendenza, è oramai diffusa nel campo degli studi femminili la nozione di autobiografia come «figura di lettura»: come situazione, cioè, eminentemente «dialogica», in cui la scrivente, alla quale si nega il privilegio di una soggettività che preesista all’atto della propria scrittura (e dell’altrui lettura), si ritrova in compenso a fondare una relazione, che le consente, e consente alla sua lettrice, un mutuo riconoscimento e un reciproco darsi identità. È in questo modo che la scrittura viene a soccorrere il soggetto, dispensandogli il bene supremo dell’individuazione sebbene, come si è detto, autobiografia e soggettività non siano segnicamente commensurabili, non possano in teoria corrispondersi e siano destinate alla divaricazione al «congedo» reciproco. […] Sul secondo fronte, quindi, quello inerente alla documentazione di una vita, resta da evidenziare come in un’autobiografia femminile il paradigma tendenzialmente non sia la «vita», concetto metafisico e totalizzante, quanto piuttosto l’«esperienza»: vale a dire una dimensione circostanziale, contestuale dell’esistenza che «ridimensiona», di per se stessa, il senso dell’operazione autobiografica. Ragione per cui non è più questione di esibire, nella sua presupposta e paradigmatica realtà, un sé compatto e coerente, che risponda in sé e per sé al quesito imponderabile di che cosa sia la «vita»; bensì di consentire, partendo dal predicato stesso, che un’identità per definizione «frantumata e insostanziale, multipla ed eccentrica» (Cavarero) quale quella femminile, trovi nel testo occasione e luogo per ricostituirsi, affidando all’atto della narrazione il senso della propria esistenza. (da: Introduzione, pp. 9-12)

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