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Somaly Mam, Il silenzio dell’innocenza, Milano, Corbaccio, 2006

“Mi chiamo Somaly; o, per lo meno, così mi chiamo adesso. Come tutti, in Cambogia, di nomi ne ho avuti parecchi. Un nome deriva da una scelta provvisoria, lo si cambia come si cambia vita se la sfortuna si accanisce contro di noi, per esempio. Ma non mi ricordo bene dei nomi che ho avuto quando ero piccola. Del resto, non ricordo quasi niente della mia prima infanzia; non so granché delle mie origini e ho ricostruito a posteriori, da vaghi ricordi, quel minimo di storia che sto per raccontarvi...”. Nata nella poverissima campagna cambogiana, dove i genitori arrivano a vendere i propri figli all’età di cinque o sei anni per pochi soldi, Somaly Mam, oggi trentacinquenne, ha vissuto parte dell’adolescenza in un bordello, in condizione di schiavitù. Violentata, picchiata e torturata, è riuscita a sottrarsi al suo destino e insieme al marito Pierre Legros ha creato nel 1997 un’associazione no-profit, la AFESIP (Agir pour les femmes en situation précaire) che dalla Cambogia, dove ha la sede principale, si è rapidamente sviluppata in Tailandia, Vietnam e Laos. Nonostante abbia subito numerose minacce, finora Somaly Mam è riuscita a salvare dalla prostituzione e dalla schiavitù migliaia di ragazze. Il silenzio dell’innocenza racconta la sua storia, la storia di migliaia di persone come lei, il dolore e la rabbia, ma anche la speranza che il mondo possa cambiare.

Somaly Mam nel 1998 è stata insignita del Premio Principe delle Asturie per la cooperazione internazionale su segnalazione di Emma Bonino, sua grande sostenitrice. Candidata al Premio Nobel per la pace dalla Regina di Spagna, da anni le televisioni e la stampa di tutto il mondo si occupano di lei. Ma in Italia Somaly Mam è diventata un personaggio pubblico soprattutto con le Olimpiadi invernali di Torino, quando, il 17 febbraio 2006, ha portato la bandiera olimpica assieme ad altre sette grandi donne come la keniota Wangari Maathai Kenia (Nobel per la pace 2004), la scrittrice cilena Isabel Allende e l’attrice ambasciatrice dell’Unicef Susan Sarandon. Oggi Somaly Mam vive vicino a Phnom Penh con i figli Melissa, Adana e Nicolai.

(dalla seconda e terza di copertina)

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Questa storia è la mia storia, la storia di una donna, di una vittima. Ma è anche la storia di tante altre donne, di tante bambine che non hanno la possibilità di far sentire la loro voce, di farsi capire, di cambiare vita. Bisogna continuare a lottare contro ogni tentativo di ledere la dignità umana. Non dobbiamo mai arrenderci. Dobbiamo fare di tutto per offrire alle vittime della prostituzione e dello sfruttamento sessuale e di qualunque altra forma di schiavitù moderna, l’opportunità di riscoprire una vita vera, una vita normale. Per questo dobbiamo agire uniti, uomini e donne. Aiutateci anche voi dando la vostra adesione all’AFESIP (da: Epilogo, p. 157)

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