Graziella
Bonansea, Come il re e la regina. Di padre in figlio un
lungo racconto sul Novecento, Milano, La Tartaruga, 2004
Una
sola voce spia l’incalzare della vicenda: quella di un figlio
che narra prima del padre poi di sé. Alle spalle il carattere
funesto degli avvenimenti del Novecento, le guerre, il fascismo,
i difficili anni del secondo dopoguerra. Rumori forti ma lontani,
interferenze, dissonanze negli alterni movimenti delle generazioni.
Uomini e donne che si smarriscono all’inizio del secolo nella
pianura della pampa argentina, o nel ritorno in un’Italia degli
anni Venti già catturata da voci roboanti, imperiose
o, ancora, sotto il ponte di un torrente. Un luogo, il ponte,
al confine dell’universo, come lo era stata l’Argentina. Lì,
per alcuni personaggi – gitani, gente che vive d’espedienti
– la legge della sopravvivenza trasforma le regole comuni, inventa
altre modalità, altri modi di vivere, di stare insieme.
Chi resta si indurisce, chi va rischia la perdita, il con-fondersi,
in un mondo “altro”, dove la miseria e il lavoro sono lo sfondo
quotidiano, costante. E saranno due figure lunari, raminghe,
sospese, Esmeralda e Tito, a evocare il senso dell’ignoto e
dell’arcano che pervade la concretezza dell’esistere. Consegnati
a una scrittura fluttuante, scarna, quasi materica, che mai
cela la poesia che è nelle cose. Esmeralda e Tito diventeranno
nel racconto parti di quel distacco/abbandono che le generazioni
precedenti avevano già praticato, lasciando un mondo
per un altro, l’Italia per l’Argentina, la terra per il mare.
Graziella
Bonansea vive a Pinerolo dove è nata nel 1955. Ha studiato
a Torino e a Parigi, dove ha conseguito un dottorato di ricerca
in Storia e Civiltà. Membro della Società Italiana
delle Storiche, ha scritto saggi sulla soggettività,
la memoria e l’immaginario del corpo nella storia del XX secolo.
Proprio quei territori di confine fra la storia e la memoria,
su cui per anni ha lavorato, l’hanno condotta alla fine degli
anni Novanta ad aprirsi alla dimensione letteraria. È
autrice del romanzo Margherita madre d’acqua, pubblicato
dall’editore Tre Lune nel 1999.
(seconda
e terza di copertina)
Mio
padre è partito un mattino scuro di bruma che ovattava
anche il suono lungo della sirena. Aveva il pastrano umido della
notte e la testa pesante, come se il mare di Bordeaux dovesse
caricarselo sulle spalle. Pensava a cosa lo divideva da quella
terra che altro non era se non un nome ripetuto di continuo,
quasi un’ossesione, “argentina, argentina”. Pensava al momento
in cui avrebbe scorto all’orizzonte la piana, le case, le alture…
…Ed
è stato lì, un mattino abbastanza presto, un mattino
di una domenica di fine giugno che l’ho vista. Non riuscendo
a dormire per il caldo, ero sceso al largo con un libro. Lei
si è imposta al mio sguardo fisso sulle pagine. Aveva
il viso di una donna non vera. I capelli rosso scuro e ricci,
la pelle chiara, i lineamenti fini, il corpo esile, tutto di
lei si adattava in maniera stupefacente al paesaggio attorno.
Fresco di tutti i miei studi, mi sono subito detto: “È
una visione, è la visione di quelli che scrivono e che
non sapendo più cosa pensare, si figurano una donna di
alabastro, non reale”.
E poi ho dovuto ricredermi. Si chiamava Esmeralda…
(quarta
di copertina)
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