Arundhati Roy, L’impero e il vuoto. Conversazioni con David Barsamian. Introduzione di Naomi Klein, Parma, Guanda, 2004
«In India e in tutto il mondo i nostri margini di libertà si stanno riducendo a una velocità spaventosa» denuncia Arundhati Roy. L’autrice de Il Dio delle piccole cose ha già messo le sue doti di narratrice al servizio della democrazia e dei diritti umani. Ora, nelle conversazioni qui raccolte, smaschera gli schemi del potere globalizzato e ci obbliga a riflettere e a prendere una posizione. Perché Arundhati Roy non si accontenta di sventolare bandiere. La sua è una nuova forma di attivismo politico: quella di una cittadina indiana che non solo arriva al cuore dell’impero, ma parla «da schiava che pretende di criticare il suo sovrano». Che parli dell’asservimento al potere dei media occidentali, del terrorismo internazionale o delle corrotte politiche di privatizzazione in India, Arundhati Roy dimostra tutta la sua capacità di «visualizzare la struttura invisibile dell’impero odierno», come scrive Naomi Klein nell’introduzione. Ma insieme all’impegno civile, all’attivismo politico, nelle lunghe conversazioni qui raccolte la narratrice indiana parla anche di sé, della sua vicenda umana e famigliare segnata dall’assenza della figura paterna, e poi degli studi, dei viaggi, del successo mondiale dei suoi libri. Ne esce così il fulmineo ritratto di una protagonista della letteratura contemporanea, diventata icona del movimento contro la guerra e per i diritti civili.
Arundhati Roy, nata nel Kerala, si è laureata alla Delhi School of Architecture e vive a New Delhi. È stata assistente al National Institute of Urban Affairs e ha studiato Restauro dei monumenti a Firenze. Ha scritto alcune sceneggiature e collabora a varie testate, fra cui «Internazionale». Il dio delle piccole cose, suo romanzo d’esordio pubblicato in Italia da Guanda, è stato un caso letterario e un best seller in tutto il mondo. Guanda ha pubblicato anche le raccolte di saggi Guerra è pace e Guida all’impero per la gente comune.
(dalla seconda e terza di copertina)
Ho parlato della profonda umanità di Arundhati, ma questo, naturalmente, è solo un aspetto della sua personalità. La sua magnanimità - grazie al cielo - ha dei limiti. Perché se Arundhati fosse tutta pace e amore, il mondo si ritroverebbe privo di uno dei piaceri più squisiti: quello di assistere alle accese battaglie di parole con cui la vediamo scagliarsi contro il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush. Lui dice: «O siete con noi o siete con i terroristi», e lei risponde: «Non c’è alcun bisogno di scegliere tra un malefico Mickey Mouse e i mullah pazzi», «Siamo una nazione pacifica» dichiara lui; «I maiali sono cavalli. Le bambine sono maschietti. La guerra è pace» ribatte lei. Bush sostiene che l’invasione dell’lraq è stata buona e giusta perché ha portato alla cattura di Saddam Hussein; è come «glorificare Jack lo squartatore per avere sbudellato lo strangolatore di Boston» commenta lei. Non conosco il segreto delle battute fulminanti di Arundhati, ma gliene sono grata. Ognuna delle sue indimenticabili frasi è un dono, capace di trasformare le paure e le incertezze in coraggio e determinazione. Nelle mani di Arundhati, le parole diventano armi, le armi dei movimenti di massa. Ma i suoi saggi e i suoi discorsi non sono propaganda, tutt’altro: costituiscono piuttosto il tentativo di definire il nostro mondo per quello che è, in termini esatti, precisi, assoluti. Per questo a volte temo che George Bush e le violenze che infligge alla lingua inglese possano spingere Arundhati sull’orlo della follia. Non molto tempo fa Arundhati Roy ha scritto di immaginare Noam Chomsky intento a guardare un telegiornale americano con un «sorriso, in cui campeggia il suo dente scheggiato». Io immagino Arundhati che assiste alla stessa trasmissione armata di un grosso rotolo di nastro adesivo: prende le parole che Bush ha spietatamente disgiunto dal loro vero significato -pace, malvagità, guerra, democrazia, verità, bene, innocenza, giustizia ... - e con estrema cura si sforza di rimettere insieme i pezzi.
Le conversazioni pubblicate in questo volume si sono svolte nell’arco di tre anni, un periodo nel corso del quale Arundhati Roy ha messo a punto una nuova forma di attivismo politico, il cui campo d’azione non si limita all’India, il luogo dove vive, ma arriva addirittura al cuore dell’impero, gli Stati Uniti. Come lei stessa sostiene nei suoi colloqui con David Barsamian, di solito sono i bianchi a mettersi in viaggio verso il Sud del mondo per spiegare ai neri qual’è la loro vera identità. Quando la direzione del flusso si inverte, le voci dal Sud si riducono per lo più a testimonianze personali sulla povertà e sulla sofferenza nelle rispettive terre d’origine. Arundhati Roy, invece, occupa uno spazio culturale radicalmente diverso; per usare le sue parole, è «un’indiana di pelle scura che parla dell’America a un pubblico americano». (da: Arundhati Roy: guerriera armata di parole di Naomi Klein, pp. 8-10)
Dall’indice: Arundhati Roy: guerriera armata di parole di Naomi Klein; L’impero e il vuoto: Conoscenza e potere; Il terrore e il re impazzito; Privatizzazione e decentramento; Globalizzare il dissenso; Note; Glossario.
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