María
Zambrano, Chiari del bosco, Milano, Bruno Mondadori,
2004
Di
Claros del bosque, l'autrice ha detto: «Tra le
mie opere, è questa, io credo, che meglio corrisponde
all’idea che pensare è, prima di tutto, alla radice,
decifrare ciò che si sente, il “sentire originale” -
e altrettanto all’idea che l’uomo è l’essere che soffre
della sua propria trascendenza, in un incessante processo di
unificazione tra la passività e il conoscere, l’essere
e la vita».
Tutto inizia con il viaggio di Ulisse e con la voce di Orfeo.
E' necessario condurre a termine le nostre visite spettrali, per
apprendere quell'Amore, di cui Diotima è sacerdotessa.
È necessario affrontare il più irrevocabile sradicamento,
avere la più profonda attitudine al congedo, per poter
sperare di scoprire, di sorprendere un simbolo di umano e divino.
«Da tali simboli, così sorpresi, ha scritto Massimo Cacciari,
sono abitati i claros del bosque. A essi è rivolta,
essi tenta sempre, e invano, di imitare, la meraviglia del filosofo».
María
Zambrano (1904-1991) è stata una delle grandi figure
della scena intellettuale del Novecento, una pensatrice originale
e profonda. Fu allieva del filosofo Ortega y Gasset e visse
a lungo in esilio (in Italia dal 1954 al 1964), a causa della
sua opposizione al franchismo. Tornata in Spagna nel 1984, vinse
il prestigioso Premio Cervantes nel 1988. La Bruno Mondadori
ha pubblicato le sue opere maggiori: La confessione come
genere letterario (Milano, 1997); Seneca (Milano,
1998); Persona e democrazia (Milano, 2000) e Il
sogno creatore (Milano, 2002).
(quarta
di copertina)
Il
chiaro del bosco è un centro nel quale non sempre è
possibile entrare; lo si osserva dal limite e la comparsa di
alcune, impronte di animali non aiuta a compiere tale passo.
È un altro regno che un’anima abita e custodisce. Qualche
uccello richiama l’attenzione, invitando ad avanzare fin dove
indica la sua voce. E le si dà ascolto. Poi non si incontra
nulla, nulla che non sia un luogo intatto che sembra essersi
aperto solo in quell’istante e che mai più si darà
così. Non bisogna cercarlo.
Non bisogna cercare. È la lezione immediata dei chiari
del bosco: non bisogna andare a cercarli, e nemmeno a cercare
nulla da loro. Nulla di determinato, di prefigurato, di risaputo.
E l’analogia del chiaro con il tempio può sviare l’attenzione
[…] E resta il nulla e il vuoto che il chiaro del bosco dà in risposta a quello che si cerca. Mentre se non si cerca nulla
l’offerta sarà imprevedibile, illimitata. Giacché
sembra che il nulla e il vuoto - o il nulla o il vuoto - debbano
essere presenti o latenti di continuo nella vita umana. E che
per non essere divorato dal nulla o dal vuoto uno debba farli
in se stesso, debba almeno trattenersi, rimanere in sospeso,
nel negativo dell’estasi. Sospendere la domanda che crediamo
costitutiva dell’umano. La funesta domanda alla guida, alla
presenza che si dilegua se la si incalza, alla propria anima
asfissiata dal domandare della coscienza insorgente, alla propria
mente cui non si lascia il tempo di concepire silenziosamente,
oscuramente anche, senza che quella si interponga per domandare
il rendiconto alla schiava ammutolita. E il timore dell’estasi
che assale al cospetto della chiarezza vivente fa fuggire dal
chiaro del bosco il suo visitatore, che diventa così
un intruso. (pp. 11-2)
E
così, colui che distrattamente se ne partì un
giorno dalle aule finisce col trovarsi per puro presentimento
a percorrere di chiaro in chiaro i boschi dietro al maestro
che mai gli si era dato a vedere: l’Unico, quegli che chiede
di essere seguito per poi nascondersi dietro la chiarezza. E
al perdersi egli in questa ricerca può capitargli di
scoprire in una rientranza del terreno un luogo segreto che
raccolga l’amore ferito, ferito come ogni volta in cui va a
raccogliersi. (p. 19)
La
bellezza fa il vuoto - lo crea - come se quel volto che ogni cosa
acquista quando è bagnata da essa provenisse da un lontano
nulla e ad esso dovesse tornare, lasciando la cenere del suo
sembiante alla condizione terrestre, a quell’essere che della
bellezza partecipa. E che le chiede sempre un corpo, la sua
copia, di cui per una specie di misericordia essa gli lascia
a volte la traccia: polvere o cenere. E al posto del nulla,
un vuoto qualitativo, segnato e puro insieme, ombra del volto
della bellezza quando parte. Ma una volta creato quel suo vuoto,
la bellezza lo fa suo, perché le appartiene, è
la sua aureola, il suo spazio sacro in cui si conserva intangibile.
Uno spazio nel quale all’essere terrestre non è possibile
installarsi, ma che lo invita a uscire di sé, che spinge
a uscire di sé l’essere nascosto, anima accompagnata
dai sensi; che trascina con sé l’esistere corporale e
lo avvolge; lo unifica. E proprio sulla soglia del vuoto che
crea la bellezza, l’essere terrestre, corporale ed esistente,
si arrende; depone la sua pretesa di essere separatamente e
persino quella di essere sé, se stesso; consegna i suoi
sensi che si fanno tutt’uno con l’anima. Un evento che si è
chiamato contemplazione e oblìo di ogni cura. (p. 57)
Dall’indice:
I. Chiari di bosco; II. Il risveglio; III.
Passi; IV. Il vuoto e il centro; V. La
metafora del cuore; VI. Parole; VII. Segni;
VIII. L’abbandono indecifrabile; IX. I cieli;
Appendice – Lo specchio di Atena; Postfazione di Carlo
Ferrucci.
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Collegamenti
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http://www.filosofico.net/
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