Adriana Lorenzi, Voci da dentro. Storie di
donne dal carcere, Roma, Edizioni Lavoro, 2004
Vivere il carcere e nel carcere significa
convivere con lo sguardo degli altri, con l’implacabile giudizio e
oblio di un esterno che rende anomali, senza tempo e senza spazio,
con un’umanità lisa, consunta. Questo volume vuole restituire agli
occhi distratti di chi vive fuori dal carcere l’immagine di donne
innamorate, di bambine colorate, di giovani nutrite di speranze,
adombrate da dubbi e dolori, di donne fragili nell’errore e
coraggiose nel momento del riscatto. Raccontarsi per
ri-raccontarsi, per trasformarsi da detenute in donne, per ridarsi
una dignità che la vita ha spesso cercato di cancellare, infangare.
Al lettore il compito di attribuire a quei nomi un volto, un
palpito, un profumo, un gesto: perché i corpi chiusi «fuori» hanno
tutti le medesime «voci dentro».
Adriana Lorenzi, docente a contratto presso la
Facoltà di Scienze della formazione di Bologna, collabora con la
cattedra di Metodologia della ricerca pedagogica dell’Università
degli Studi di Bergamo e con l’Università di Padova. Tra le sue
pubblicazioni: Parole ammalate di vita (1999), Una
formica cammina sul tetto (2003).
(dalla quarta di copertina)
È strano come il carcere non sia mai esistito
nella mia percezione del territorio. A lungo non ho neppure saputo
dove fosse collocato nella mia città, forse perché è fuori dal
quartiere in cui vivo, forse perché quella realtà non mi
apparteneva, non avevo nulla a che vedere con il carcere. Il carcere
è sempre ai margini, non solo territoriali ma anche mentali. È un
non-luogo, poiché la negazione della sua esistenza salva da
eventuali sensi di colpa: nessuno lo ha costruito e nessuno ha
recluso alcuno in carcere. Ci si astiene non vedendo, non
considerando cosa porti con sé questa parola. Carcere, Prigione. Ed
è già blocco, sbarre, manette, chiavi, chiavistelli e cancelli […]
La prima volta che mi sono avvicinata al cancello del carcere ho
avvertito che avrei dovuto fare una sorta di salto, anche se non
c’entrava il coraggio o la codardia, ma rimaneva l’idea
dell’iniziazione, di un passaggio senza ritorno indolore. Stavo per
penetrare una realtà che mi sarebbe rimasta appiccicata addosso e mi
chiedevo se io sarei riuscita a rimanere appiccicata addosso a
quelle donne della sezione femminile con le quali avrei lavorato per
due mesi e mezzo. Varcando il cancello principale, sono rimasta
colpita nel rendermi conto che cessavo di essere un soggetto donna,
con tanto di storia intrecciata a un nome e a un cognome, e
diventavo un oggetto senza più storia ma con un ruolo legato al nome
e al cognome impresso sulla carta d’identità. Quel ruolo mi
permetteva di accedere all’interno del carcere, mentre la mia storia
non interessava a nessuno e la carta d’identità finiva in altre
mani. La libertà cessa per tutti al cancello del carcere. E quella è
stata anche per me una prima volta. (da: Introduzione, pp.
19-20)
Dal
sommario: Presentazione: Donne e carcere:
storie della vita di Gennaro Esposito; Introduzione;
Narrare dentro il carcere: Premesse teoriche:
la parola parlata; La parola scritta; La fatica di scrivere;
Letteratura e relazione di gruppo; Scrivere racconti di
vita: Che cos’è la storia di vita?; Perché proporre
alle donne del carcere di raccontare?; I racconti delle
donne: Il nome; Un evento importante; Lo scrigno della
memoria; La famiglia; Passione-amore; Io donna; Il dolore;
Considerazioni finali; Conclusioni.
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